Un impiegato che soffre di insonnia e un produttore di sapone senza scrupoli fondano il fight club, un circolo clandestino destinato a diventare qualcosa di più.
In breve. Un thriller fuori norma e con un aspetto profondamente psicologico, basato sulla doppia personalità del protagonista oltre che, nella sua evoluzione, su un’analisi della società del tempo in chiave anarchica.
Parlando di Fight Club vale la pena premettere qualcosa sulla genesi del romanzo omonimo: Chuck Palahniuk parte infatti da un singolare paradosso sociale, basato su un’esperienza da lui realmente vissuta. Un uomo si presenta in ufficio malconcio e ferito, senza che nessun collega gli chieda cosa sia gli sia successo e continuando a parlare di cose banali o ordinarie – nella realtà, si trattava Palahniuk stesso, reduce da un’aggressione accidentale durante un campeggio, e rientrato in ufficio nell’indifferenza dei colleghi. Secondo l’autore, quel far finta di nulla ostentato e banalizzante da parte dei colleghi, nel vederlo in quello stato, nasconderebbe un substrato inconscio: chiedere cosa fosse successo, in altri termini, avrebbe implicato un grado di connessione con l’altro che non potevano permettersi.
Una considerazione amara quanto realistica, su cui si fonda uno dei romanzi e dei film thriller più significativi e sconvolgenti degli anni novanta. Sconvolgente per la freschezza del suo linguaggio pulp, violento e mai fine a se stesso, privo di fronzoli quanto in grado di creare personaggi che sembrano usciti da un incubo ballardiano – affetti da dipendenze affettive e da droghe, manie di suicidio, depressione, degrado, incapacità di comunicare in modo coerente con l’altro. Significativo, in secondo luogo, perchè racconta la storia di un giorno di ordinaria follia, ricorrendo a tormentoni e loop narrativi sempre più coinvolgenti, elevando all’ennesima potenza l’eco del film di Schumacher: quella domanda struggente “I’m the bad guy?”, pronunciata da Bill Foster nell’apice della disperazione.
Esistenzialismo urbano, rabbia repressa e lamento dello yuppie medio, ammorbato da tecnologia e ricchezza quanto oberato da un lavoro monolitico di cui non capisce il senso. Palahniuk ha dipinto un quadro perfetto dell’epoca che potrebbe adattarsi anche alla realtà di oggi, tornando da qualche giorno al centro del dibattito dopo la bizzarra notizia (per usare un eufemismo) dello stravolgimento del finale del film da parte di un canale di streaming cinese, ironizzando sullo stesso come migliore (sic) di quello inventato da Fincher. Cosa curiosa, peraltro, considerando che in passato l’autore ne aveva sempre parlato bene, considerandolo addirittura migliorativo rispetto alla sua idea.
Fincher si presenta forse come il miglior regista possibile per un concentrato di nichilismo post moderno come questo, considerando le similitudini con l’ambientazione sporca e fumosa modello Seven e le sferzate fuori dalle righe alle multinazionali modello The Social Network. La sua regia è rapida, imprevedibile, arricchita da mille dettagli psicotici e da una caratterizzazione teatraleggiante di molte sequenze: si respira il fight club metropolitano nei bassifondi della città, dove le persone si prendono a pugni per poi riabbracciarsi ed essere di nuovo felici, in un clima di primitivismo che cozza con l’avvento delle nuove tecnologie, dei comfort più evoluti da ufficio e dell’allora nascente internet all’interno di uffici e case (come viene citato esplicitamente in una sequenza).
Soprattutto, viene dato ampio spazio alla psicologia dei personaggi, evidenziando la coppia improbabile del narratore vs. Tyler Durden: il primo è l’impiegato medio represso, passivo-aggressivo e tendenzialmente masochista (la sequenza in cui Edward Norton si prende magistralmente a pugni da solo rientra, di fatto, tra quelle più di culto del film), il secondo è un venditore di sapone senza scrupoli, sleale, cinico e fin troppo sicuro di sè. I due legano fin da subito, e se non è la coppia più strana del cinema, poco ci manca; ma siamo noi, alla fine, con le nostre oscillazioni di umore e le nostre incertezze. Come noto a chiunque conosca l’opera, del resto, si tratta di due facce della stessa medaglia: Tyler possiede problemi psicologici irrisolti, e in lui convivono più personalità (questa doppiezza sarà rielaborata e personificata da un singolo caratterista qualche anno dopo in American Psycho), e sarà questo a guidare la trama fino al celebre finale, osannatissimo e diventato di culto quasi più della storia raccontata: la distruzione deliberata dei palazzi in cui ha sede il capitalismo, in un delirio di esplosioni a catena che evocano quasi le detonazioni di Zabriskie Point di Antonioni.
Al centro di Fight Club (non bisogna mai parlarne apertamente, viene ripetuto come un mantra a più riprese sia nel romanzo che nel film: è come una setta a cui tutti, in fondo, vorremmo appartenere, e dove significativamente sono presenti solo uomini) c’è una certa analisi socio-politica in chiave anti-consumistica, che oggi sembra quasi scontata e che è virata su una critica diretta al culto degli acquisti, all’alienazione indotta dalle cose che, prima o poi, ti possiedono. Non solo: il Fight Club da’ luogo a singolari e ferocissime risse, in cui chi colpisce esprime crudelmente il proprio sadismo e chi viene colpito quasi ne gode, invitando l’aggressore a colpire ancora (e qui troviamo un substrato psicologico non indifferente, che varrebbe la pena di valutare dopo aver letto le teorie di Michael Bader secondo cui, ad esempio, un manager che sia attratto dal lato sottomissivo di relazione sadomasochista potrebbe farlo perchè è un modo per redimersi, per allontanare il senso di colpa dovuto alla propria posizione di potere).
Stando a varie interpretazioni, il Fight Club è una vera e propria terapia d’urto per l’uomo moderno, che trova sfogo ai propri istinti primordiali mentre vive inebetito da un mondo sempre più folle, sempre più sordo alle reali esigenze dei singoli, sempre più dominato da multinazionali prive di scrupoli nonchè da colletti bianchi modello I have no idea of what I am doing. In tutto questo, il sesso è consumo diretto determinato da incontri quasi paradossali (due persone che si fingono malate e si incontrano durante alcune sedute di autentici malati gravi), anche qui dal sapore vagamente ballardiano, a cui sembra solo mancare l’apoteosi decadente modello Crash. Non c’è spazio per l’amore, se non nell’accettazione della distruzione dell’ordine delle cose attuale e in una sorta di reset finanziario della civiltà (secondo l’intreccio, la cancellazione del debito).