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La donna che visse due volte: vertigini, doppi e psicologia

Scottie Ferguson è un ex-detective, ormai in pensione perchè sofferente di acrofobia. Un suo vecchio collega di università, poco dopo, vorrebbe che pedinasse la propria moglie, dalle singolari tendenze suicide ed appena salvata dopo essere caduta in un fiume.

In breve. Thriller dalla profondità inconsueta, diretto ed interpretato magistralmente. Venne descritto da Alfred Hitchcock nell’intervista a François Truffaut in termini lapidari: “per dirla chiaramente, un uomo vuole andare a letto con una donna che è morta“. La donna che visse due volte è un must assoluto per qualsiasi cinefilo, da vedere almeno una volta nella vita.

La donna che visse due volte (titolo originale Vertigo, 1968) è da molti considerato il film più personale di Alfred Hitchcock, in cui il tema del doppio si evince, anzitutto, mediante la duplice caratterizzazione del personaggio di Madelein prima, e di Judy in seguito. Ma nella moltitudine di significati associabili al film, sviscerati anche dalla psicoanalisi (come ha proposto Zizek nella “Guida perversa al cinema, ad esempio), c’è anche un senso di doppiezza nelle intenzioni di Scottie, che ad un certo punto continua a pedinare la donna senza chiarire, nè al pubblico nè tantomeno a se stesso, se lo stia facendo per passione o per lavoro.

La donna sembra affascinata fin da subito dal poliziotto che l’ha salvata dall’annegamento: al tempo stesso, mantiene una caratterizzazione profondamente ambigua – sembra “fuori di sè” in molti passaggi, soffre di incubi ricorrenti e, soprattutto, non sembra avere una memoria particolarmente brillante (si scoprirà in seguito che, in realtà, si tratta di un personaggio che sta interpretando). Tutto questo finisce per incrementare l’empatìa amorosa di Scottie che, prevedibilmente, si innamora della moglie dell’amico, o di quella che crede essere tale. Sembra l’inizio di una imprevedibile storia di passione, ma le tendenze suicide della donna sembrano avere la meglio: Madelein si lancia dallo stesso campanile che la tormentava nei propri incubi: Scottie si ritrova così afflitto da un doppio senso di colpa, quello per aver tradito un amico, e quello per non aver impedito la morte di una persona.

La vertigo del titolo originale ha pertanto una valenza molteplice: è la vertigine emulata dall’abile camera del regista, ma è anche quella di cui soffre Scottie, il che ne circoscrive le potenzialità in modo epico e coinvolgente: non potrebbe più fare il lavoro di una vita, dopo lo shock iniziale della caduta del collega, eppure lo fa ugualmente, ancora una volta. Tale sofferenza non è solo fisica ma anche psicologica, e viene trasferita sullo spettatore, tant’è che quel senso di acrofobia viene reso in soggettiva mediante camera, che inquadra la profondità della potenziale caduta con una tecnica innovativa per l’epoca (dolly zoom), e ci trasferisce il medesimo senso di sbandamento.

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Al tempo stesso, vi è lo stordimento che accattiva lo spettatore mentre cerca di seguire la vicenda, ed è anche una vertigine sentimentale: in seguito Scottie è ossessionato da Madelein, e la cerca nelle fattezze di varie donne che le somigliano. Nella sua presenza scenica ormai leggendaria, e lontano dallo stereotipo dell’americano tutto d’un pezzo, Stewart ha interpretato un uomo logorato dall’amore, che finisce per un anno in clinica psichiatrica, che continua a rincorrere un’idea di donna che non esiste e, in definitiva, si incarica di uno dei ruoli meno banali in assoluto della propria carriera. Dal canto suo, la Novak è tipicamente hitchcockiana, con la sua aria algida, ambivalente e quasi sinistra, dalle motivazioni misteriose e a simboleggiare un personaggio tanto enigmatico da apparire, diremmo oggi, archetipo di tanti caratteri lynchiani.

Hitchcock, ad una delle regie più celebri e di spessore che abbia mai realizzato, non risparmia certi siparietti tipici del suo cinema: uno su tutti, la caratterizzazione del giudice, che non considera Scottie colpevole della morte della donna ma, al tempo stesso, ne biasima la vigliaccheria (c’era una scena molto simile in Omicidio!, ad esempio, che simboleggiava egualmente il senso di colpa del protagonista). Da un punto di vista tecnico, poi, i titoli di testa a cura di Saul Bass dovrebbero essere il primo utilizzo accreditato della computer grafica in un film.

Al film si deve anche l’invenzione del dolly zoom o effetto vertigo, una particolare tecnica di ripresa concepita qui, per la prima volta, da Irmin Roberts e consistente in una combinazione tra zoom avanti e carrellata indietro (o viceversa), effetto ottenibile – ad esempio – de-zoomando e, nel frattempo, facendo procedere il cameraman verso avanti. L’idea era venuta ad Hitchcock fin dal suo precedente film Rebecca – La prima moglie, per quanto la tecnologie dell’epoca non gli avesse consentito di farlo, e (per quanto ne sappiamo) ispirato ad un’esperienza di reale svenimento da parte del regista.

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