Il nobile Kurt, cacciato dal proprio castello per via della propria vita dissoluta, viene freddamente riaccolto dai familiari: ha alcuni conti in sospeso ed è ossessionato dall’amore negato di Nevenka, la quale ha dovuto sposare il fratello di lui su imposizione del padre. In realtà i due sono amanti segreti, e vivono un rapporto sado-masochistico clandestino: un giorno Kurt viene trovato morto ed il suo fantasma, almeno apparentemente, inizia a tormentare la famiglia…
In breve. Uno dei capolavori di Mario Bava: gotico puro dall’immenso stile, ritmo e livello registico-recitativo, senza esplosioni di violenza (quasi sempre solo accennata) e con una trama molto ben delineata. Alcuni elementi della storia (i tradimenti tra benestanti apparentemente irreprensibili, ad esempio) saranno ripresi dai migliori gialli all’italiana, che usciranno di lì a qualche anno.
“La frusta e il corpo” rientra tra i film più importanti di Mario Bava: il maestro di Dario Argento, infatti, già nei primi anni 60 propose una trama incentrata sulla sottomissione ed il sadomasochismo, esplicitato nel rapporto morboso tra Nevenka (Daliah Lavi) e Kurt (Cristopher Lee). Una storia in cui l’aspetto psicologico finisce per farla da padrone, e che rimane tanto semplice quanto suggestiva – per non dire archetipica: l’uso del Technicolor, un castello a due passi dal mare, l’espressività inquietante di Lee e pochi personaggi appartenenti ad una sorta di nobiltà decaduta sono tutti elementi che bastano a creare un film di culto totale.
E si tratta di elementi che risultano autosufficenti anche per via del marchio registico: l’artefice de “La maschera del demonio” per una volta deve rinunciare a Barbara Steele e concentrare l’attenzione sul personaggio della Lavi, riuscendo a risultare sempre all’altezza della situazione con grande continuità. Come sempre la storia viene abilmente “decorata” dai dettagli, che sono letteralmente dipinti sulla macchina da presa (il pugnale sotto la teca o il labirintico castello con i suoi segreti ed i suoi passaggi misteriosi).Tutto questo basta per creare un film indimenticabile (ovviamente contestualizzandolo al periodo in cui è uscito) e garantendo l’implementazione di un meccanismo perfetto di definizione dei personaggi.
Lo possiamo vedere, per fare un esempio, durante i funerali di Kurt: il regista propone gli sguardi in primo piano di tutti i protagonisti, e dal volto di ciascuno di essi traspaiono chiaramente i sentimenti e la personalità di ognuno: lo sprezzante rancore di Giorgia, l’indifferenza mal celata di Cristiano ed il dolore di Nevenka. Una cosa non troppo comune, a questo livello di dettaglio, all’interno del cinema del terrore successivo e che, bisogna sottolineare, riesce a far salire il enormemente il livello. Tale delinare la trama in modo teatrale e quasi “pittorico”, del resto, sarà una delle caratteristiche delle migliori produzioni argentiane (oltre ad alcune fulciane),questo a prescindere dalla trama che – come accennato – è piuttosto semplice e lineare. Il dolore della bella Nevenka, alla fine, ed il suo compiacimento per le frustate del sadico Kurt di cui è innamorata saranno la chiave di lettura del film: costruendo lentamente i presupposti della storia, infatti, senza svelare mai troppo e soprattutto senza mai annoiare lo spettatore, facendo uscire fuori una verità che, come sempre, è stata sotto i nostri occhi dall’inizio. A Bava, poi, bastano una finestra spalancata durante una tempesta, una mano che proviene dal buio (“come un ragno”, verrà detto nel film), un corridoio vuoto o dei semplici cambi cromatici per creare paura, tensione, anche solo atmosfera. E questo si ricollega, oltre alla perizia registica, alla validità dello script e del cast, oltre che al lavoro fotografico semplicemente superlativo operato dal regista e da Ubaldo Terzano (David Hamilton) – quello che ha ispirato il nome di Ubaldo Terzani nel film di Albanesi.
Un must assoluto per gli amanti del gotico e non solo.
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