“Cosa si nasconde nel vortice infinito delle spirali?” era la tagline, vagamente ridondante, che accompagnava nei primi Duemila l’uscita del film horror Uzumaki: un film nettamente diverso dalla maggioranza degli horror “razionalisti” e “deduttivi”, in cui il topic era irrazionale e inspiegabile e si ispirava a un manga omonimo, caratterizzato da minacciose spirali che si configurano quale presagio mortale e minaccia per i protagonisti.
Ben lontano dall’essere una fantasia autoriale astratta, essa sembrava prendere spunto dalla cosmologia frattale, l’universo (è proprio il caso di scrivere!) di teorie cosmologiche che studiano i sistemi complessi, sottolineando l’inadeguatezza della geometria e della matematica a descrivere lo (spesso vituperato e frainteso) “mondo reale”. Secondo tali teorie, gli oggetti dell’universo possiedono una struttura invariante rispetto alla scala, come avviene per le coste frastagliate o i bronchi polmonari, difficili o impossibili da formalizzare matematicamente – eppure dotati di una struttura ciclica, sia “dall’altro” che “effettuando uno zoom” sulle stesse.
I limiti della logica deduttiva, del resto, erano stati più volte sottolineati da Karl Popper, autore discusso e considerato a volte controverso il quale, con grande lucidità, aveva sottolineato l’impossibilità di dedurre leggi universali da casi particolari. La scienza ne sa qualcosa, nell’applicazione del suo metodo scientifico e nella necessità di dover accettare insegnamenti anche dagli errori, rigettando ogni logica troppo utilitaristica (quasi per definizione). Ciò ha una conseguenza a cui siamo estremamente sensibili, al giorno d’oggi, che interessa la scienza e la sua discussa “fallibilità“, ovvero il fatto che sia utile e preziosa nella misura in cui si ammetta serenamente quest’ultima sua feature.
Secondo Popper è impossibile vivere esperienze “universali” e totalizzanti, e gran parte della psicologia ha sottolineato come un approccio troppo “tassativo” alla realtà possa condurre a nevrosi o stati di depressione. Ciò nulla toglie alla validità del metodo scientifico, ovviamente, ma serve in effetti solo a consolidarne la reale posizione, e ad evitare che a qualcuno venga in mente di curare il Covid-19 con le cipolle o (all’estremo opposto) di applicare il metodo scientifico per trovarsi un/una fidanzata/o. Una spirale che collassa indefinitamente nel proprio centro potrebbe tutto sommato essere un simbolo calzante del mondo in cui viviamo: un mondo troppo spesso privato delle necessarie sfumature e ridotto da alcuni, purtroppo, a ridicole contrapposizioni binarie, “posizione zero” vs “posizione uno”. Le spirali di Mandelbrot, ad esempio, sono coloratissime e vagamente psichedeliche nella loro rappresentazione “artistica”: esse rappresentavano oggetti impossibili da formalizzare per altre vie, e soprattutto le loro sfumature erano innate – e forse, a questo punto, andrebbero solo accettate come parte della realtà, per quanto siano spaventose, inafferabili, indefinibili.
Senza scomodare troppi sofismi o, peggio ancora, scappatoie mistiche che ci porterebbero fuori strada, ci limitiamo ad osservare come una spirale possa anche rappresentare la propagazione circolare di pensieri, a volte tossici altre decisamente più funzionali, e che potrebbero richiamarsi a varie forme di contagio emotivo. Il contagio emotivo è in effetti un aspetto consolidato quanto studiato scientificamente, e sembrerebbe dimostrare che certi stati d’animo possano – non solo perdurare nelle persone – ma diffondersi, anche senza contatto fisico o verbale diretto, mediante strumenti come i social network. E se fosse vero che le emozioni espresse da altri su Facebook influenzano le nostre emozioni, abbiamo la prova di un contagio emotivo che potrebbe avere conseguenze più grandi di quelle che immaginiamo. A quel punto sarebbe provato che non sia tanto questione di metodo quanto di presupposti e di approccio mentale al problema, che uno può anche decidere (come spesso accadrà) di farsi scivolare addosso senza pensarci più.
The ABCs of death 2 raccontava, nell’episodio firmato da Hajime Ohata (O is for Oclocracy), di una società distopica in cui i morti viventi (a proposito di contagi da cinema) abbiano definitivamente preso il sopravvento sugli uomini: una sorta di seguito ideale di tanti film di George Romero. Nel micro-episodio in questione, gli zombi processano sommariamente gli umani sopravvissuti, adducendo prove processuali ridicole, e condannandoli senza appello. Vengono un po’ i brividi, peraltro, pensando a come tale oclocrazia e la sua pretesa di stabilire la verità “per alzata di mano” minacci da anni la nostra società. E allora, forse, sarebbe preferibile imparare a navigare dentro quelle spirali senza perdere la testa, imparando a capire i nostri limiti con umiltà così come a ricalcolare i nostri punti di riferimento, rigettando le verità monolitiche o iper-semplicistiche ed imparando ad esercitare, forse in modo meno goffo, il diritto di critica.
Aokoroko, CC BY-SA 3.0, via Wikimedia Commons
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