Opera di Dario Argento è l’horror sulla profezia che si autoavvera


Opera è un thriller italiano del 1987 scritto e diretto da Dario Argento che si avvale dell’interpretazione di Cristina Marsillach come protagonista. La storia è quella di un giovane soprano che viene travolta da un improvviso successo: deve sostituire una collega improvvisamente indisponibile e questo comporta, oltre a dover affrontare pressioni e responsabilità, dover sopravvivere ad un killer che la perseguita senza ucciderla. Siamo sul set teatrale del Macbeth, nel quale vediamo – nella prima sequenza – uno stormo di corvi che fanno parte della scenografia, mentre il primo fotogramma verte sulla pupilla di uno degli animali e sul riflesso del mondo attorno a lui. I corvi hanno un ruolo sostanziale all’interno di Opera, come spesso avviene per i film di Argento e come evidenziato, ad esempio, in Phenomena.

Alla base della storia la credenza superstiziosa che portare in scena il Macbeth porti sfortuna, oltre a uno spaccato sul mondo dell’opera e degli intrighi / non detti alla base dello stesso. Moltissime le sequenze memorabili di questo film, le quali bilanciano una trama che forse è meno coinvolgente del passato: gli omicidi cruenti del killer a cui siamo letteralmente costretti ad assistere, la presenza del villain che viene ripreso in soggettiva e che fa adombrare sospetti sulla propria identità in più occasioni (potrebbe essere, a turno, il regista, l’altra soprano, il poliziotto e così via), le sequenze più scenografiche tra cui, su tutte, quella del proiettile che trafigge il personaggio della Nicolodi attraverso lo spioncino di una porta. Ma l’analisi del film sarebbe incompleta se non considerassimo nel contempo l’evoluzione del personaggio di Betty e la sua introspezione psicologica, come se il personaggio stesse cercando la propria identità e fosse costretta a passare per orrore e dolore al fine di realizzarlo.

Opera di Dario Argento è un puro horror ottantiano in linea con stile e ritmo dell’epoca, certamente superiore alla media a livello di qualità (spesso in quegli anni venivano prodotti, con scarsa convinzione, horror insulsi e poco originali). L’idea di ambientare l’intreccio nel mondo dell’opera lirica è originale e sarà ripresa anche nel successivo Il fantasma dell’opera, versione argentiana del classico di Lon Chaney del 1925. Si tratta di un lavoro che segna una ennesima svolta all’interno della filmografia di Argento, e che possiede come unico difetto una narrazione che (probabilmente) non sempre brilla. Da un lato c’è l’intrigo di una storia che cerca di uscire dai canoni: c’è il killer con i guanti di pelle neri, ovviamente, ma la sua presenza è una minaccia subdola, ossessiva, che non la uccide subito e sembra quasi vegliare in modo perverso sulla protagonista. Betty viene ben interpretata da Cristina Marsillach (con cui, a detta di Argento stesso nel libro Paura, non fu per nulla facile lavorare), ed è un personaggio che si muove su più livelli narrativi. Al netto della parvenza da personaggio riservato e decisamente fuori dai giochi e dagli intrighi che caratterizzano il mondo dello spettacolo, dovrà gestirsi una responsabilità improvvisa e ansiogena: quella di sostituire la protagonista all’ultimo secondo, con la sensazione di scatenare lei stessa una serie di eventi drammatici (la sera della prima, ad esempio, cade una coppia di fari da un lato del teatro, e una maschera rimane uccisa dal killer).

Tutto questo provoca una lacerazione interiore che riusciamo a vedere materialmente, sia per i discorsi interiori della protagonista (che ad un certo punto si sentirà in colpa per quanto avviene attorno a lei), sia per la trovata della voce fuori campo di argento che commenta come in un noir quello che sta succedendo. Betty inizierà presto una carovana degli orrori che la porterà a confrontarsi con il proprio io-bambina, raffigurato idealmente dalla vicina di casa che le permette di scappare dal killer attraverso un condotto d’aria, confrontandosi costantemente sia con l’ostilità del mondo che la circonda (aspetto sociologico di Opera) sia con un Super Io severo e crudele, che continua a mostrarle una donna che assiste alla tortura di un’altra mentre lei bambina non riesce a capacitarsi di quello che sta succedendo. Se alla base della storia vi sono una delle ossessioni primarie di Argento sulla figura della madre, in questo caso assistiamo a una protagonista che ha avuto una madre esplicitamente sadica. Di più: questo arreso Betty tragicamente incapace di amare, così come espresso esplicitamente al tecnico di scena, con cui non riesce ad andare a letto. Questo scatena una vera e propria profezia che si auto-avvera sulla falsariga del Macbeth che diventerà re, e per evitare l’insorgere di una tragedia finirà per favorirla indirettamente. Questo spiega il motivo per cui il killer, feroce super Io della vita della protagonista, non si limita ad ucciderla bensì la costringe ad assistere all’orrore della morte, non semplicemente legandola bensì costringendola a tenere gli occhi aperti con degli spilli applicati alle palpebre. C’è una nota aneddotica su questa scelta, che rappresenta l’intento ironico e grottesco di bersagliare il pubblico che chiude gli occhi durante le scene più cruente dei suoi film (“con tutto quello che costano“, raccontò al pubblico romano durante una proiezione di una versione restaurata da Cinecittà di Opera), il che si lega all’esorcizzare l’orrore, guardarlo in faccia per liberarsene – forse – una volta per sempre.

Gran parte di Opera si muove tra sogno e realtà, con vari momenti di narrazione convulsa ed astratta, in parte inspiegabile per il pubblico. Siamo ancora – sono gli ultimi scampoli, forse – nella fase degli horror irrazionali argentiani sulla falsariga di Suspiria e di Inferno, nei quali non sempre è agevole per il pubblico trovare una spiegazione a tutto, ma tanto basta per farci apprezzare il lavoro ancora oggi. La profezia che si autoavvera, in effetti, sembra ricalcare ciò che Nick Land ha chiamato iperstizione: Betty fa di tutto per evitare l’orrore, ma non fa altro che accelerare il suo arrivo, anche con il proprio non agire. Ogni volta che è costretta ad assistere ad un omicidio, in effetti, esce fuori di casa, cammina per le strade in preda al panico o al disorientamento, come se quella parte della storia fosse sepolta nel proprio inconscio. E in effetti il finale rivela che le cose stanno proprio così, che l’orrore sognato era concreto, reale, sostanziale e soprattutto condizionante. In tal senso vorrebbe la pena fare una riflessione sul doppio finale di Opera, in cui sembrerebbe che (dopo l’ennesima incursione a sorpresa del killer) la natura sadica della protagonista sia stata “trasmessa” da madre a figlia. Sarebbe un colpo shockante per lo spettatore, ma l’apparenza inganna – ed assistiamo così ad un ulteriore ribaltamento di fronte (non è Betty a parlare, in quel momento, bensì l’immagine che il killer vorrebbe di lei). Alcuni hanno sottolineato l’implausibilità di alcuni passaggi, in questa fase, ma probabilmente vale molto più la pena apprezzarne le conclusioni: sulla sequenza ultima vale la pena soffermarsi, rivederla più volte, ricordare le parole che Argento ha scelto per commentare, anche qui sulla tradizione noir, la metamorfosi di Betty, in fuga dagli orrori a cui abbiamo assistito, mentre afferma di aver detto “un sacco di cose senza senso” al killer per tenerlo buono. Ma Betty ha anche deciso “di non voler vedere più nessuno, di voler scappare da tutto. Perchè lei  è diversa dagli altri. Perchè non assomiglia agli altri, neanche vagamente, a nessuno di loro. Le piacciono il vento, le farfalle, le foglie, gli insetti, la pioggia, le nuvole“. Poi libera una lucertola e il film – stando allo script – si chiude su “There, my beauty, go free“, quasi a voler rappresentare la rinascita o la liberazione della protagonista dal giogo crudele della madre.

Del resto parliamo di un film che ha avuto diversi problemi con la censura (Argento in un’occasione ha raccontato di come la scelta di mettere il divieto da parte della commissione censura “a tutti” sia stata condizionata dalla reazione della moglie di uno dei magistrati che si occupava della revisione), che non ha avuto una distribuzione agevole e che è stato probabilmente apprezzato più all’estero che in Italia. Varrebbe anche la pena di osservare che l’identità del killer è sicuramente annoverabile tra i motivi della censura, forse più del livello di cruenza delle scene di cui sopra: Opera fa saltare lo schema del poliziesco classico, in modo inconcepibile e quasi “scandaloso” per parte del pubblico, sovvertendo lo schema canonico di suddivisione tra buoni e cattivi e, come se non bastasse, presentando un orrore che è prima di tutto interiore, come parte del vissuto della protagonista.

Riguardando film così dovremmo quindi considerarci fortunati che siano scampati alle grinfie del sequestro.

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