Preoccuparsi

Sono spesso preoccupato. Non so dire bene perché, ma so che è così. L’etimologia è chiara: preoccuparsi deriva dal latino praeoccupare, che significa «occupare prima, prevenire». In effetti mi sento occupato prima, come se fossi proteso a prevenire qualcosa che non so neanche bene cosa sia. È un concetto strano, atipico, perverso se vogliamo. Qualcosa mi preoccupa, e penso che qualcosa possa andare male, prima o poi. Ma non so dargli un nome. È anche un fatto statistico che prima o poi avvenga qualcosa di non ottimale, e sembra normale preoccuparsi per questo – ma di sicuro non è il modo più salubre per affrontare le giornate che ci rimangono da vivere. Godiamocele.

Per un periodo ho temuto – mi sono preoccupato, eccoci qua – di essere uno di quelli che sono convinti di essere sempre malati, gli ipocondriaci. Preoccuparsi di essere ipocondriaci è ipocondria al quadrato, come avere paura di ingrassare mentre divori la vaschetta di gelato che hai comprato il giorno prima. In questi momenti la tempesta di pensieri affolla la mia mente, respiro più profondamente, poi ci penso dall’alto. E tutto cambia, quando vedi le cose dall’esterno. Mi sono allenato per anni a farlo, non è facile ma aiuta tanto, quando ci riesco.

Ogni volta che scruto nel mio abisso interiore mi rendo conto soffro, soffro periodicamente per la preoccupazione che le circostanze possano genericamente volgere al peggio. E questo avviene a dispetto di quanta cautela, scrupolo e precauzioni possa prendere. Mi è capitato molte volte di temere di diventare padre pur avendo sempre usato contraccettivi – sapete, non voglio diventare padre, è più forte di me. Non vorrei, prima che qualche istinto materno salga sul palco a dirmi che sono un egoista. Non c’è da preoccuparsi: posso cambiare idea, se necessario. Mi riservo il diritto di farlo, ci mancherebbe altro, ma era per dire che le paure che abbiamo sono quasi sempre figlie – neanche a dirlo, parlando di padri – del nostro modo di vivere. Detta in modo più comprensibile, se non siamo preoccupati per una cosa precisa, finiremo per preoccuparci in generale, è nella natura umana.   Il bello è che il più delle volte le cose neanche volgono al peggio, limitando la soddisfazione che avresti potuto trarne: d’accordo, non sarà imploso l’universo mentre la gente urla di terrore per le strade, cosa che io avevo ampiamente previsto, ma il mondo qualche problema ce l’ha.

Come posso esprimere la mia preoccupazione per le circostanze, o per il fatto che mi trovi nella situazione contraddittoria di chi vorrebbe ardentemente qualcosa senza avere il coraggio di andarsela a prendere? Potrei direi meteoropatico, se non fosse che si tratta di una patologia già nota e relativa a sintomi – credo – diversi dai miei. Ma se con un gioco di immaginazione per meteo intedessimo ciò che Jung ha definito un principio di nessi acausali, con riferimento alla celebre definizione di sincronicità, sono le coincidenze che mi spaventano. Mi dicono spesso “non hai trovato ancora la persona giusta”, eppure ero qui, la aspetto da anni, o forse ne ho incontrate anche troppe, di persone giuste. Mi spaventano le circostanze oggettive e soggettive che capitano ad ognuno di noi, tipo quando esci con gli amici e ti obbligano, come una volta mi è capitato, a conoscere la loro amica single ad anni, ti piacerà, è appassionata di formula uno, è una strana un po’ come te. E poi restavano lì a fissarci, sorridendo con un’espressione alla Jack Torrance in Shining, come i bambini che guardano gli animali strani nello zoo, guarda che carino i due lofiformi, sono due pesci che praticano il parassitismo sessuale: quando si accoppiano, si fondono tra loro. A volte per il resto della loro vita. Grazie mille, ma non fa per me.

Una volta la mia terapeuta ha suggerito che ciò che faccio condiziona lo stesso ciò che accade. Come se fosse parte di un flusso in cui era necessario passare, come se attraversare fosse comunque una necessità, del resto non siamo ancora passati del tutto. Ho iniziato a fare terapia, del resto, perché da troppo tempo ero preoccupato.

La preoccupazione è uno stato mentale che in effetti fa parassitismo: ti avvinghia, ti abbraccia e ti pervade, ti fondi con lei, diventa chiaro dall’esterno che qualcosa ti tormenta e quasi tutti ti chiederanno: “sei preoccupato, vero?”. E tu risponderai no, tranquillo, grazie, non mi piace fare sesso con qualcosa che ha intenzione di fondersi con me per sempre. La preoccupazione è quello stato mentale in cui puoi avere l’impressione che niente cambi attorno a te. E se vivi ogni giornata pensando a ciò che potresti fare di utile o bello per quello che rimane del mondo – non è il massimo, in effetti, convincersi che tanto non cambia nulla. Eppure lo diciamo spesso. Non votare, tanto non cambia niente. Non uscire con gli amici, perché tanto fate sempre le stesse cose. Non provarci neanche, in generale, perché gli altri sono stupidi e cattivi, e tanto sai già che andrà male o che non ti piacerà. È un pessimismo preventivo, cautelativo, ti preserva dalla novità anche qualora dovesse portarti bene, però scusa, ti protegge dal peggio, va benissimo così, vero? Non andare al colloquio di lavoro, e questo non perché temi di non superarlo, ma perché sai che quando lavorerai lì sarà tutto difficile, il capo sarà uno stronzo e i colleghi peggio.

È terribile pensarlo, perché basta veramente poco per immaginare che a nessuno più al mondo importi niente di te. Una parola fuori posto, un’osservazione anche minima, a volte, e scatta l’effetto farfalla, vedi tutto nero senza un nesso logico tra le cose. A me è capitato varie volte: l’ultima è stata quando parlavo di relazioni con una collega, ho esplicitato che non voglio figli, che non mi interessa averne e lei, che ne ha due molto piccoli, non deve aver preso benissimo la mia posizione. Ho rispetto per tutti, mi sono sentito di dover specificare, mosso da un imbarazzo tangibile e dal suo viso che cambiava espressione trapelando malamente delusione o insofferenza. A volte è sufficente una parola fuori dal posto in cui l’altro si aspetta che debba essere, e tutto diventa nero – come una notte senza stelle e senza lampioni, mentre ti aggiri stanco e ubriaco in un posto all’aperto dove inizia a fare anche un po’ freddo.

Conosco una persona che deve esserci passato: era mio amico, siamo cresciuti assieme e quanto era bello stare assieme d’estate. Una volta dovevamo uscire con due ragazze che aveva conosciuto la sera prima, così ci distaccammo dal gruppo abituale, in quel momento mi sentivo più vicino a lui che mai – anche se, per un motivo ignoto, le ragazze non si videro più. Il mio amico ha trascorso gli ultimi anni della sua vita isolandosi. Si aggirava stanco e ubriaco in un posto all’aperto: faceva freddo. Poi è morto, è morto in una domenica di agosto, senza preavviso e senza lettere d’addio. L’ultimo posto in cui è stato visto è stata una ferramenta. Io non lo vedevo da mesi, e mosso da mille flussi mi preparavo ad andare al matrimonio di un altro amico. Poi la notizia. Rimasi al balcone a fissare l’esterno per qualche minuto, mentre i miei erano a tavola e non dissero nulla. Non avevo nemmeno la forza di piangere. Pensavo che se aveva freddo potevo portagli una coperta, ma in realtà a quei tempi non sapevo come stavano le cose. L’ultima volta che l’avevo incontrato non ero riuscito nemmeno a parlarci, perché non parlava più con nessuno. Stava seduto sul divano di casa, incurante della presenza dei suoi amici, fissando un qualche sogno spezzato che doveva trovarsi, penso, al di là del muro. Forse temeva che tutte le sue azioni fossero ininfluenti: si era fermato.

La preoccupazione non è per forza negativa, e spesso ti aiuta a dare una misura e un nome alle cose. Odio quando le cose ti tormentano senza avere un nome. Anche io l’ho pensato varie volte, poi estendevo il discorso, generalizzavo, la mente galoppava via, e mi chiedevo cosa potessi fare, da solo, per migliorare la comunicazione, per far capire al mondo che la tolleranza, l’umanità, la salute mentale, la comprensione per gli altri (soprattutto quando non sono nostri amici) sono valori aggiunti, fondamentali, non sono orpelli di cui disfarsi come se nulla fosse. Del resto cosa posso fare io, da solo, per fermare una guerra, per dare qualcosa a chi davvero ne ha bisogno, per fermare le malattie gravi, per contribuire a dare casa e cibo a chi non ne ha. Come posso da solo creare socialità, amicizie, relazioni? Ci ho messo molto tempo a capirlo, e non l’ho capito del tutto. So come fare, ma mi dispiace: non so come spiegarlo. Ognuno ha il proprio metodo, se vuole. La cosa essenziale è che ci ho rimesso il mio tempo, ma ci ho anche messo il tempo necessario per capirlo. E ogni cosa, più o meno, è andata al suo posto. Perché ognuno ha il proprio tempo. E forse il tempo del mio amico era finito, e lui se ne era accorto prima di chiunque altro, e ha dato spazio all’idea di lasciare questo mondo.  Mi preoccupa pensarlo. Ma voi non preoccupatevi per me.

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