Credimi, sono un bugiardo (“Trust Me, I’m Lying: Confessions of a Media Manipulator” in lingua originale) è un libretto misconosciuto in Italia, uscito nel lontano 2014 e (come va di moda scrivere in questi casi, pur non trattandosi di un episodio dei Simpson) sostanzialmente profetico.
Profetico non a caso, direi, perchè questo diario di Holiday – prima che entrasse in una fase di redenzione che abbraccia addirittura lo stoicismo – è una esplorazione accurata e approfondita delle tattiche o strategie utilizzate dai media e dai pubblicitari per manipolare e influenzare le notizie e l’opinione pubblica.
Sulle prime si tratta di un’incomprensibile ode irrazionale e tutt’altro che stoica, in effetti: Holiday lavora nel cinema, deve promuovere un film commedia (si tratta del misconosciuto in Italia I Hope They Serve Beer in Hell), e di punto in bianco racconta di aver deciso di auto-imbrattare il manifesto del film, accusandolo di misoginia e maschilismo.
Il punto non è nemmeno capire se le accuse fossero fondate, perchè all’epoca della campagna il film non era ancora uscito nelle sale. Accompagnato dalla propria ragazza dell’epoca, Holiday imbratta i manifesti e poi scatta delle foto col proprio smartphone. Arrivato a casa scrive a due blog molto in vista all’epoca, usando un account fake (falso nome di Evan Meyer) e racconta di aver visto per caso quelle locandine, senza indicare la strada precisa per risultare più credibile. Dopo qualche ora, la (falsa) notizia è su tutti i blog, viene ripresa dai giornali nazionali, viene rimossa la pubblicità del film dagli autobus di linea della cità, alcune femministe scendono in strada per manifestare contro il regista.
Come dire, missione compiuta.
L’eco della notizia non si avvertì mai in Italia perchè mai questo film vi è arrivato, ma fu una case history da manuale, a posteriori, in ogni caso. Racconta tutto o quasi su come sia facile, usando internet da vero troll, creare notizie sensazionalista indistinguibili dalle notizie reali. Per quello che vale saperlo: il film di Tucker ebbe recensioni quasi tutte negative, con una media di 3,19/10 sull’affidabile Rotten Tomatoes, che lo stroncò ferocemente: “I Hope They Serve Beer in Hell fallisce nei suoi tentativi di umorismo volgare, e Tucker Max si presenta così antipatico e oltraggioso che l’inevitabile arco narrativo del film sembra forzato“, fino a renderlo addirittura uno dei peggiori dell’anno. Non solo: il film fallì al botteghino guadagnando poco più di 1 milione di dollari, e la colpa secondo Tucker fu proprio quella di essersi fatti prendere la mano con le fake news sul film. Durante il periodo promozionale pre-uscita del film, come se non bastasse, i media furono unanimi nell’accusare il film ed il regista di un approccio superficiale e violento al sesso, rendendo affascinante la pratica di impegnarsi fare sesso con donne ubriache e non consenzienti. Il libro Trust Me, I’m Lying, il marketer Ryan Holiday ha sostenuto che la controversia fosse interamente una trovata pubblicitaria fabbricata e falsamente diffusa da Holiday per creare interesse sul film. Sono i miracoli (si fa per dire) dell’auto-imbrattamento, dell’auto-insulto potremmo anche scrivere, dell’idea che per far parlare di sè uno possa arrivare all’autolesionismo, a volte ammantandolo di un’aura subliminale, della serie “lo faccio perchè così parleranno di noi”. Detta banalmente, l’idea di fare qualcosa di triviale e spacciarla per “cult” è consolidata e tutt’altro che estranea ai social, e Holiday potrebbe essere uno dei più grandi precursori nella storia. Anche perchè, a rifletterci ancora, auto-imbrattarsi non è semplicemente dare benzina allo squallido bene o male, purchè se ne parli: significa declinare quel detto stereotipato esclusivamente nel lato osceno, raddoppiandolo e rincarando la dose: male o malissimo, purchè se ne parli! Si potrebbe anche discutere della natura politica di questo trollaggio, che ha scatenato le ire di varie attiviste sulla base di un fatto fabbricato ad arte, spiattellato da un marketer in cerca di visibilità senza che nessuno, di fatto, si sia preso la briga di verificare. All’epoca si poteva anche capire che un’operazione di auto-imbrattamento fosse troppo inconcepibile per essere intuita dall’esterno, ma oggi, mi chiedo: quanti auto-imbrattatori potrebbero esistere, anche solo in Italia?
Poco importa che il risultato sia stato conseguito e la campagna non abbia probabilmente funzionato a dovere (come anche ammise il regista del film), perchè tanto nel mondo del marketing digitale non sembrano esistere sensi di colpa. Con una mossa di un cinismo sublime, e con la lucidità di raccontare la storia senza filtro, Holiday racconta il mondo delle pubblicità online in nuce, riferendo più volte come i blog più in vista siano strumenti molto potenti nelle mani dei pubblicitari, per quanto ad esempio in Italia il più delle volte, alla meglio, ai blog si chiedano (perlopiù) banali guest post. Nel libro Holiday condivide le sue esperienze lavorando nel settore delle pubbliche relazioni e del marketing online, rivelando come notizie false o sensazionalistiche possano essere diffuse e amplificate attraverso il ciclo delle notizie digitali, in modo da fornire visibilità a chi di dovere, nel bene o nel male. Viene esposta soprattutto, a mio avviso, la sostanziale fragilità del giornalismo online e la tendenza dei media a dare priorità al clickbait e al sensazionalismo rispetto all’accuratezza e alla verità, proprio perchè i giornali online lavorano sulle visualizzazioni e senza quelle, di fatto, muoiono rapidamente..
Oggi il principio dell’auto-imbrattamento potrebbe essere diventato una prassi accettata, di cui non sappiamo nulla e per cui nemmeno ci poniamo il problema. Ci vorrebbero, forse, migliaia di emuli-Ryan per scoprirlo con certezza.
Foto di Holiday: Luiz Berengue, CC BY-SA 2.0 <https://creativecommons.org/licenses/by-sa/2.0>, via Wikimedia Commons