Il Divin Codino: un surrogato di Baggio, su Netflix

Un’altra occasione sprecata per raccontare una storia bellissima

I miei primi ricordi coscienti iniziano con il gol di Roberto Baggio alla Cecoslovacchia, ad Italia ’90. Per chi, come me, ha vissuto l’ascesa e le mille sfide del campione di Caldogno, Roberto Baggio è stato un idolo generazionale, Pallone d’Oro, protagonista in tre Mondiali e mezzo, e da sempre ha rappresentato anche uno dei giocatori più misteriosi e forse magici del calcio.

Ero emozionatissimo per l’uscita del film Netflix, pur sapendo che non sarebbe stato The Last Dance. Condensare la storia di Baggio in poco più di un’ora e mezza è dovuto certo essere difficile, i tagli erano inevitabili, ma purtroppo in questa produzione Netflix si è andati troppo con l’accetta. Infatti alla fine la storia del campione ne esce quasi sminuita.

Gran parte della trama si regge su eventi che lo spettatore deve conoscere, riguardanti il Baggio calciatore. Realmente si raccontano solo 3 momenti della vita di Baggio, sui quali si sviluppano poi le 3 trame, abbastanza basiche, su cui si sostiene tutto il film: la cura degli infortuni attraverso il buddismo, il rigore di Pasadena, e il rapporto con il padre Florindo. Concentrandosi sul periodo giovanile di Vicenza e della Fiorentina, il Mondiale del 94, e la fine della carriera a Brescia (senza mai vedere Baggio con la maglia di Juve, Milan o Inter, forse per non attirare le discussioni dei tifosi, visto che in tutti i tre casi non era finita benissimo). Poco di più.

E dire che Baggio ne avrebbe avute chiavi interessanti da sviluppare: il passaggio dalla Fiorentina alla Juve, gli anni con Trapattoni (lo stesso che gli avrebbe negato la gioia dell’ultimo Mondiale) in cui vince il Pallone d’oro, il passaggio al Milan degli invincibili ormai in declino, l’epica stagione a Bologna (forse la sua migliore) con cui si conquistò la convocazione, e quel maledetto pallone uscito di tanto così...  ve l’ho detto, Baggio – per chi lo ha vissuto – è stato molto di più di quello che si vede nel film Netflix.

È chiaro che per raccontare quanto detto sarebbe stata necessaria almeno una mini-serie, ma a vedere i risultati di Sky con quella su Totti, forse sarebbe meglio abbandonare proprio questo formato. Il risultato di questo “surrogato di campione” sembra molto un mix tra una fiction tipo i Cesaroni e L’Allenatore nel PalloneA supportare questa mia teoria, c’è pure fantastico il cameo nel finale di Martufello nei panni di Carletto Mazzone, che fa urlare lo spettatore alla trashata .

Come dicevo preferisco di gran lunga le bio-pic sportive, in cui si rivedono le vere imprese, o anche le sconfitte, dello sportivo che si vuole celebrare, magari intermezzate dal vero racconto dei protagonisti (ripeto, The Last Dance). Questa formula riproduce un surrogato di un surrogato. Non si vede un gol vero di Baggio, non si vede un dribbling, o anche le sue vere lacrime dopo il rigore sbagliato.

Sia chiaro, Andrea Arcangeli è bravissimo nell’imitazione filologica del personaggio, nei gesti, nel modo di parlare e persino nello sguardo. Ma può bastare questo a tenere su un film? Ancora una volta si dimostra l’abisso tra le produzioni Netflix d’oltre oceano e quelle italiane, che come livello non riescono ad andare oltre alla fiction di Canale 5 (non a caso è stato prodotto da Mediaset).

Strazio finale: la canzone finale di Diodato, l’unico cantante con la bestemmia già inclusa nel nome. Un’occasione persa.

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