The dirt: la vera storia dei Mötley Crüe, su Netflix
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Il nome Mötley Crüe sembrerebbe derivare per assonanza con motley crew, espressione gergale che indica un gruppo misto e inusuale. Il nome venne trovato dal chitarrista Mick Mars e naturalmente questa storia viene citata in uno dei biopic metal forse più noti e meritevoli degli ultimi anni. La vera storia dei Mötley Crüe, noti fin dal 1981 per la propria musica glam metal quanto, forse in misura maggiore, per i loro eccessi dentro e fuori dal palco; cento milioni di dischi venduti, e poi 22 dischi di platino e 10 dischi d’oro ad attestarne i meriti. The dirt significa ovviamente lo sporco, e per quanto faccia riferimento all’eccesso trasgressivo che ha caratterizzato da sempre la band, sembra riferito anche al senso di sudiciume che trasuda dalle tragedie realmente vissute dalla band (un incidente mortale, la dipendenza dall’eroina, relazioni sempre più disumanizzate), aspetti furono in parte esorcizzati, ad esempio, nell’album Theatre of pain.

È un po’ il conflitto di sempre: The dirt non è solo un (o scontato) inno alla libertà personale e a quella indotta dal più selvaggio sex, drug and rock’n roll, ma risiede anche (forse soprattutto, agli occhi della regia) nel conflitto inevitabile tra quel mondo e la cosiddetta ordinarietà, tra relazioni familiari e personali sempre più instabili e un successo che sembrò, ad un certo punto, collassare addosso ai quattro artisti. Appena dieci anni dopo, per inciso, i W.A.S.P. raccontarono nella loro rock opera The crimson idol (1992) l’ascesa e del declino della rockstar Jonathan Steel, personaggio immaginario quanto possente simbolo di quei tempi. Una storia fictional che sembra di rivivere in questo biopic, a ben vedere. Tempi strani, tempi di eccessi, tempi mitizzati e mitologici, a volte idealizzati e fraintesi come fosse tutta una urban legend, immersi tra storie incredibili, mezze verità e certo giornalismo rock cialtronesco e a volte del tutto privo di fonti. Tempi che, comunque sia andata, i fan continuano ad amare, tanto sono splendidamente mostrati da film tratti da biografie autorizzate come, per l’appunto, quello in questione.

Proponendo un misto tra l’estetica folle dei KISS e la pesantezza dei Black Sabbath, i Mötley Crüe ne fanno fuoriuscire un cocktail esplosivo di hard rock, glam, androginia ed espliciti (forse insolitamente, fino ad allora, rispetto al genere proposto) riferimenti al satanismo. I loro show erano fatti di fuoco e fiamme, pentacoli ed esplosioni live, oltre che naturalmente allusioni sessuali perenni e immutabili, forse prima di chiunque altro nel genere (la band per inciso ha chiuso la propria carriera nel 2015). Non è sull’inventiva musicale che si mosse il loro mood: è “solo” un questione di attitudine, la stessa che rende il rock qualcosa che devi coltivare da dentro, una musica che colma i vuoi esistenziali ed autorizza a sognare, osare, prendersi qualcosa in più. L’attitudine che ha reso dischi come Shout at the Devil e Theatre of Pain riferimenti di culto per gli amanti del genere, come anche citato dal film in questione (disponibile, per inciso, su piattaforma Netflix).

La trasgressione dei Mötley traspare fin dalle prime immagini del biopic diretto da Jeff Tremaine, dalla gestazione tutt’altro che agevole – dato che i diritti del libro da cui è tratta la sceneggiatura (The dirt, distribuito in italiano grazie alla Tsunami Edizioni) si ottennero quasi subito, ma il progetto vacillò per diversi anni, fino a subire un ritardo nell’uscita dal 2013 al 2017 inoltrato. Quello che ne risulta oggi traspare nel modo più scorretto e privo di garbo possibile, con scene esplicite  – non solo allusive ma anche di squirt, abuso di droghe, famiglie degenerate, abuso di alcol e sesso randomico, come neanche nella più degenerata fantasia di un fan sarebbero potute avvenire.

Nulla che non sia legato, effettivamente, agli stereotipi del rock’n roll di ogni ordine e grado, inclusa la pluricitata scena in cui Ozzy Osbourne avrebbe sniffato una fila di formiche (oppure un piccolo ragno, secondo un’altra versione non citata nel film). Il punto, naturalmente, non è tanto stabilire la veridicità di questa storia, smentita peraltro dal protagonista che afferma di non ricordare l’episodio: la veridicità è praticamente impossibile da confermare con certezza, in questi casi. Il punto è, semmai, apprezzare la folle compostezza del biopic in questione, in grado di sorprendere, appassionare (ma anche riflettere, in certi passaggi successivi) soprattutto i fan più navigati del rock e del metal di vecchia scuola.

Un biopic eccessivo, proprio come sono stati (e sono tuttora, probabilmente) i Mötley, oggi dinosauri del genere e allora simbolo di un metal che stava per prendere definitivamente la strada dell’eccesso, negli Stati Uniti più puritani e censori di sempre (dove a metà degli anni ’80, ad esempio, venne imbastito un vero e proprio processo contro i testi dei dischi rock, orgogliosamente difesi dal solo Frank Zappa). Gli stessi anni 80 ancora oggi mitizzati dai fan dell’heavy metal (a torto o a ragione), qui descritti come pieni di lustrini ed inutilità assortite, da cui la band si è sempre distaccata “creandosi il proprio spazio”. Uno spazio unico, che il film permette di gustare appieno senza rinunciare ad un ritratto che risulta, alla fine dei conti, tutto sommato a lieto fine.

Da non perdere, soprattutto per i fan del genere.

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