Abbiamo appena visto il nuovo film di Dario Argento, e vi riportiamo le nostre impressioni di seguito.
Occhiali neri si basa (stando a IMDB) su uno script di Franco Ferrini, storico regista e sceneggiatore non solo di Argento (Non ho sonno, Trauma), risalente al 2002 e poi accantonato in seguito al fallimento della Cecchi Gori.
Per essere un lavoro di 20 anni fa riadattato ai giorni nostri, fa sicuramente un’impressione positiva: mancano l’auto-citazione e i riferimenti al passato, e per una volta potremmo dire che sia stato un bene. Occhiali neri funziona di per sè, è piuttosto al passo coi tempi e tratta con grande sensibilità il tema dei non vedenti, il loro dramma psicologico e l’inesorabile risoluzione in senso argentiano (leggasi animalista), come suggerito dall’ultima frase del film (in grado, peraltro, di eliminare quell’accennato happy end che sarebbe stato improbabile).
In effetti il sapore che fa respirare l’opera è di quelli old school: non solo Argento, infatti, sembra accarezzare la forma pura del giallo-thriller che l’ha reso celebre, ma i punti di contatto con lavori relativamente recenti come Non ho sonno rimangono, a ben vedere, sostanziali.
La prima sequenza di impatto arriva dopo pochi minuti, e lascia presagire un crescendo di paura degno dei vecchi tempi. Al tempo stesso Occhiali neri ha una propria identità, è ancorato al presente e non cerca di evocare il passato in maniera potenzialmente goffa, confermando la tendenza di un Argento più toccante, più concentrato sui tipi umani che sulle motivazioni del killer (che qui sono quasi in secondo piano rispetto al resto, alla fine), sia pur senza rinunciare agli immancabili siparietti ironici che caratterizzano alcune sequenze.
La forma narrativa, pertanto, sembra tributare poco o nulla le intricate macchinazioni tipiche dei lavori del passato, preferendovi un thriller lineare modello americano, che evoca comunque, anche con un certo orgoglio di fondo i bei tempi (l’assassino che soffoca le vittime con l’ennesimo laccio, senza mostrarsi in viso). Il che ricorda anche Giallo, per certi versi, un lavoro sottovalutato e fin troppo maltrattato da una critica che forse si aspetteva l’eterna evocazione dei seventies.
Nonostante tutto, e senza nulla togliere alla regia, è proprio la Pastorelli a reggere bene una parte complicata, con una fisicità e un’interpretazione solo in apparenza avulsa al genere (varrebbe la pena rievocare l’esordio con Lo chiamavano Jeeg Robot, in cui valorizzare la fragilità innata di un personaggio le valse un David di Donatello: scelta perfetta, da questo punto di vista, anche qui). Il tutto considerando l’onore e l’onere di interpretare un personaggio che perde la vista, con tutte le difficoltà interpretative e sostanziali per il personaggio e considerando gli inevitabili accostamenti con l’enigmista cieco (anch’esso perseguitato da un assassino) de Il gatto a nove code. Due film diversissimi tra loro, beninteso, anche solo perchè figli delle epoche in cui sono stati girati, e per cui varrebbe giusto la pena di osservare che Argento deve aver ripensato a quel concetto di “seconda vista”, lo stesso che permetterà ai personaggi di avere salva la vita (sia pur in modi differenti).
Occhiali neri, di per sè, risulta essere un buon film: ne escono benissimo anche le due protagoniste, Asia Argento e Ilenia Pastorelli, in grado di caratterizzare tipi umani quanti completi, variegati, credibili e multisfaccettati. Se la stessa cosa non può dirsi per altre interpretazioni, a dirla tutta, resterà vivido nella memoria il personaggio di Diana, la escort dal lato umano (oltre che dotata di una sensualità dirompente, il che la rende ancora più credibile come personaggio) costretta dalla cecità a ricostruire la propria vita. Il tema della rinascita, della doppia vista, dell’assassino insospettabile che poi, in questa sede, si riduce ad un emblema di frustrazione sessuale neanche troppo difficile da indovinare (e per cui qualche spettatore old school si sarebbe potuto aspettare qualche motivazione più socio-psicologica), sono girati con cura e con la consueta passione, e su questo ci sono davvero pochi dubbi.
L’Argento di oggi è, al netto di qualche lungaggine e climax non riuscitissimo, quello che ci piace: incalzante, essenziale, privo di lungaggini, splatter nel giusto, amante dei primi piani, incisivo, a tratti realmente imprevedibile. La sfida tra un bambino innocente ed una ragazza non vedente contro un killer feroce che li perseguita è un conflitto all’ennesima potenza, una polarizzazione tra un villain onnipotente e due potenziali vittime che poco sembrano potere contro di lui, lasciando presagire una tensione di fondo costante.
Questo è l’aspetto del film che funziona meglio e ne valorizza la visione, tanto da lasciare il desiderio di rivederlo dopo essere usciti dalla sala. Mancano, se vogliamo, le arzigogolate trame del passato, i gialli a incastro che rivelavano, dopo aver escluso l’impossibile, l’unica e sola verità; così come nel momento dell’apice del crescendo finale (la fuga nel bosco, per intenderci) sembrano presagirsi orrori inaspettati, soddisfatti a mio parere soltanto in parte. Sul finale, poi, si recupera in grande stile, arrivando ad evocare e omaggiare con garbo e sentimento qualcosa di già visto in Phenomena.
Non sapremmo dire con quanta intenzionalità, ad oggi, ma la locandina di Occhiali neri ricorda da vicino quella di Essi vivono di John Carpenter.
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