Nel 2015 esce nelle sale Lo chiamavano jeeg robot di Gabriele Mainetti, lasciando il pubblico sorpreso, incuriosito quanto mediamente soddisfatto.
Qualsiasi appassionato di manga (nello specifico di mecha, ovvero inerenti robottoni colossali) non può che conoscere Jeeg robot d’acciaio, ideato a metà anni Settanta da Gō Nagai e disegnato da Tatsuya Yasuda. Alla cui base vi è un concetto di risveglio dell’antico regno Yamatai, che si credeva estito, un’idea a cui Lovecraft attinse in più occasioni, caotica e minacciosa, che fa parte di una cosmologia horror quasi universale (vedi ad es. Tra le ceneri di questo pianeta di Eugene Thacker, Nero Edizioni). Nel contesto del film, il risveglio che vediamo non riguarda esseri alieni ma, molto più materialisticamente, il dolore che gli uomini infliggono ad altri per avidità, come nella tradizione poliziesca affrontati da altri esseri umani con storie, limiti, passioni e difetti. Il riferimento al personaggio giapponese, del resto, è un omaggio profondo e non solo evocativo: Jeeg Robot diventa simbolo della riscossa contro il male del mondo. Ed è anche la figura con cui il protagonista viene identificato da parte di una ragazza (Alessia) affetta da problemi psichiatrici.
La dinamica della storia lascia a suo modo spiazzati per l’approccio originale: no, non siamo negli USA e non ci sono nomi altisonanti in inglese (tipo Spider Man). Ci troviamo a Roma, ai giorni nostri: Enzo Ceccotti è un ladruncolo di periferia che, durante una fuga, si lancia nel Tevere per essere contaminato involontariamente da alcune scorie radioattive. Il contatto gli provoca dei superpoteri: i proiettili lo lasciano illeso, possiede una forza sovrumana (con cui naturalmente proverà a portarsi a casa un bancomat) ed il suo comportamento inizia ad infastidire lo Zingaro, il megalomane capo della malavita locale. La sequenza del primo faccia a faccia tra protagonista ed antagonista è diventata, negli anni, un meme molto utilizzato sui social: ma io una sola cosa vojo sapè. La contaminazione del resto è anche quella del cine-fumetto, privato in questa di certi effetti speciali (che, alla lunga, risultano spesso risibili), unita ad un’ambientazione locale senza essere provinciale (o poco esportabile all’estero, se preferite), rendono Lo chiamavano Jeeg Robot probabilmente uno dei film più originali e significativi usciti nel 2015.
Ciò che vediamo ne Lo chiamavano Jeeg Robot è un lavoro scorrevole e compatto, ben valutato dalla critica per sceneggiatura e recitazione (quantomeno più elevate della media), il quale eredita molte dinamiche e contrapposizioni narrative dai fumetti classici dei supereroi (ad un certo punto, ad esempio, anche lo Zingaro acquisirà superpoteri) contestualizzando il tutto nella realtà italiana (lo scontro finale avverrà allo Stadio Olimpico). In altri tempi, probabilmente, un film del genere si sarebbe realizzato con pochi mezzi e in tutta fretta, magari da parte di un regista fumettaro semi-sconosciuto, e sarebbe diventato un cult per pochi. Al contrario, Lo chiamavano Jeeg Robot ha consacrato Mainetti (che quest’anno fa uscire il suo nuovo lavoro, Freaks Out) come artefice di un film indimenticabile nel suo genere, per quanto lontano dalla perfezione (alcune sequenze risultano forse troppo diluite), coraggioso e audace nel proporre la tematica ad un pubblico abituato a ben altro tipo di cultura pop. Un film che si prefigura come un unicum, almeno da quello che sappiamo oggi, perchè nonostante le suggestioni finali non sembra che verrà realizzato un seguito (per quanto, nella storia del cinema, non siano mancati sequel alla peggio “apocrifi”).
La creazione di Gabriele Mainetti – il quale, oltre alla regia, si è occupato anche delle musiche – assume la valenza di un’opera unica perchè ambienta una storia da cine-fumetto nello scenario riconoscibilissimo di Roma. Non solo: declina la storia in una narrazione ispirata a quella del poliziesco all’italiana di quasi 50 anni fa, una cosa che nessuno probabilmente aveva mai pensato e che, va esplicitato, funziona alla grande. Lo chiamavano Jeeg Robot, del resto, è un film che sembra essere piaciuto a chiunque, a prescindere dai gusti e dalla conoscenza di Tatsuya Yasuda o di Thomas Milian, in un mashup a suo modo geniale, gradevole e riuscito. E vale la pena di osservare, sul finale e anche solo di sfuggita, come l’evocazione del titolo possa ricondursi ad un altro classicone anni ’80 come Lo chiamavano Bulldozer, il film di Michele Lupo del 1978 – con cui il film di Mainetti condivide parte della dinamica narrativa, l’ambientazione italiana e l’idea dell’eroe solitario destinato ad un ruolo risolutivo.
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