Un enigmista non vedente sospetta di aver assistito ad un omicidio mediante gli occhi della nipotina. Il caso svelerà un intrigo industriale che coinvolge una multinazionale farmaceutica, in cui l’uomo, assieme ad un giornalista, andrà sempre più vicino al killer.
In breve. Al netto delle suggestioni nella trama (il protagonista è un enigmista cieco, il che fornisce in nuce un presupposto molto accattivante), Il gatto a nove code resta il capitolo forse più debole della pluricitata “trilogia animalesca” (L’uccello dalle piume di cristallo, Quattro mosche di velluto grigio). In realtà è anche un piccolo manifesto dell’autonomia artistica di argento, con sequenze degne di nota (soprattutto quelle più violente visivamente) in parte anticipatrici di ciò che diventerà un must in successivi suoi lavori.
È possibile che Il gatto a nove code possa essere, ad oggi, uno dei film meno capiti e visionari del maestro del terrore; le suggestioni dell’enigmista cieco restano francamente irresistibili per quanto poi, a ben vedere, possa essere “solo” di uno dei tantissimi lavori di Argento più discussi che visti. Di sicuro non uno dei migliori, data la sua andatura un po’ incostante, e questo a detta dello stesso regista che mai l’ha citato tra i preferiti, anzi – proprio il contrario, per quanto sia interessante ripercorrerne la storia e coglierne alcuni aspetti poco notati dalla critica.
Al momento della sua uscita in Italia (1971), Il gatto a nove code incassò 2,4 miliardi di lire (contro ogni previsione, in particolare da parte di chi lo ritenne poco spaventoso, cosa peraltro tutta da discutere) e non fu mai, come ammesso dallo stesso regista, uno dei suoi film preferiti. Dario Argento e Dardano Sacchetti – sceneggiatore storico anche di Lucio Fulci – scrivono assieme la trama di The Cat o ‘Nine Tails, dividendo i credits tra loro per l’impresa ma di fatto è un lavoro pienamente argentiano. La produzione del lavoro venne impostata sulla base delle prime 40 pagine della sceneggiatura (tutte scritte da Argento), tanto che il regista richiese di ottenerne i diritti da solo (Sacchetti comunque figura nei titoli di testa).
Essere accreditati per la sola storia significava, ovviamente, una sostanziale riduzione dell’ingaggio per lo sceneggiatore, e questo si tradusse in una disputa a riguardo di cui si racconta, a quanto pare, nel libro (piuttosto raro e costoso) Mario Bava: All the Colors of the Dark di Tim Lucas (prezzo attuale: 705€). Il gatto a nove code segnò comunque l’esordio come sceneggiatore di Sacchetti, autore delle migliori sceneggiature di film anni settanta ed ottanta tra cui L’aldilà, Paura nella città dei morti viventi e Demoni, per quanto non sempre con la libertà espressiva che avrebbe voluto e che lo ha reso celebre in tutto il mondo (si veda questa illuminante intervista sul Davinotti a riguardo). Nel cast va ricordata almeno l’interpretazione convincente di Catherine Spaak, abile nel giocare il ruolo di femme fatale ambiguamente cinica, e naturalmente lo statunitense Karl Malden, l’enigmista cieco, che qui crea uno dei personaggi argentiani più iconici di sempre (archetipo dell’investigatore privato fai-da-te, lucido e intuitivo nonostante la cecità).
Il gatto a nove code venne girato tra settembre e ottobre 1970, tra Berlino, Torino ed i Cinecitta Studios di Roma. Per certi versi ricorda molto lo stile e le situazioni delle origini argentiane, quello de L’uccello dalle piume di cristallo, per intenderci, arricchito dai consueti iconici siparietti che hanno reso famosi i suoi film: il personaggio appassionato di cucina che propina le proprie ricette a chiunque capiti, il barbiere che evoca grottescamente le situazioni classiche del thriller argentiano. Il mood è darkeggiante, oscuro e reso accattivante dal tipico dettaglio mancante iniziale (un furto non meglio specificato nell’istituto in cui lavorava un genetista, da poco ucciso), i personaggi affascinanti, benestanti ed ambigui, che sembrano mentire ad ogni respiro. Sono le sequenze con il killer in soggettiva, del, resto, a rimanere impresse nella memoria, soprattutto per la loro materialità salivare, i loro primi piani, l’iride che viene mostrata a tratti come fosse un messaggio subliminale.
Certo, rimane un difetto che il presupposto scientifico della trama sia debole (inclusa l’iride che “memorizza” il volto del killer, oggi diremmo che è pseudo-scienza), con la pretesa (forse credibile per l’epoca) che la configurazione cromosomica XYY denoti naturalmente un individuo come criminale, cosa che – viene detto nel film – renderebbe inutile qualsiasi studio di criminologia e psicoanalisi, prefigurando un mondo distopico in cui i criminali sono identificati e isolati grazie ad una semplice analisi del DNA. Fa anche sensazione, vista oggi, la considerazione fatta da uno dei personaggi sulla segretezza della ricerca in questione, che non si vuole divulgare al pubblico per evitare che “venga capita male”: una attenzione che probabilmente era figlia della sensibilità d’epoca e che oggi, nell’epoca del clickbait grottesco e della scrittura sistematica di notizie infondate sulla base di articoli scientifici in draft o preprint, fa quantomeno sorridere. Il cinema d’epoca, in effetti, a volte sa raccontarci bene come cambiano i tempi.
Detto proprio da Argento, poi, che ha costruito la propria fortuna su tipi insospettabili che si svelavano feroci assassini, appare quantomeno limitante, e ciò diventa motivo di scarso feeling del pubblico anche più affezionato con quest’opera. Anche il gatto a nove code, la frusta con nove corde che evocherebbe istintivamente scenari sado-masochisti di rilievo, è un pretesto narrativo relativamente debole, dato che rappresenta le nove strade da percorrere per trovare la verità. Ciò non toglie che le sequenze degli omicide siano da consegnare alla storia del cinema, essendo l’autentico punto di forza di un film che, tutto sommato, resta godibile ancora oggi.
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