Il ritorno di Tarantino con “C’era una volta a… Hollywood”

La storia di un attore televisivo in declino e del suo fidato stuntman, nello scenario dell’industria cinematografica americana del 1969.

In breve. Il nuovo Tarantino è efficace, misurato nei toni quanto imprevedibile sul finale; il film funziona, e anche piuttosto bene, per quanto ci sia il sospetto che certe scelte, alla fine, servano solo ad accattivarsi il pubblico mainstream.

Accolto con un applauso di sette minuti alla premiere di Cannes (solo 85 di meno di quelli meritati da Fantozzi), C’era una volta a… Hollywood è il nuovo film scritto e diretto da Quentin Tarantino, a suo stesso dire uno dei più personali mai girati. Un Tarantino che – ancora una volta – si reinventa stile e contenuti, raccontando – come già in Inglorious Basterds – una sostanziale fiction in salsa revisionista e mescolando più storie tra loro (suo settore di eccellenza in Pulp fiction). Una tonalità narrativa, pertanto, da storia inventata (la scrittura dello script è dello stesso regista, ed ha richiesto 5 anni di lavoro), basata su personaggi e fatti realmente accaduti – e che diventa esplicita fin dalla scelta del titolo (“C’era una volta“) al fine di raccontare una favola malinconica, sullo stile “cosa sarebbe successo se…“, soprattutto sfruttando gli strumenti e gli stilemi del cinema di genere (o meglio, almeno alcuni degli stessi). Ma è pur sempre Tarantino, ed il riferimento al feticismo plantare compare sempre e comunque, purchè si tratti di piedi femminili.

Liberamente basato su personaggi e storie reali (c’è ovviamente tanta invenzione, il pubblico lo sa ma, in un certo senso, dovrà far finta di non saperlo), C’era una volta a… Hollywood è un film ricchissimo di dettagli, riferimenti e citazioni, oltre che filmato magistralmente ed in grado di realizzare l’impresa di sempre: rendere appetibile per il mainstream il cinema di genere di Wes Craven, Fernando di Leo e via dicendo. Un genere che, storicamente, è poco noto o addirittura snobbato da una discreta parte del suo stesso pubblico; questo per via del fatto che quel cinema è, e rimarrà sempre, diverso dal modello a cui si ispira Tarantino. Soprattutto perchè, questa volta, il regista ha dato priorità ai toni favolistici e sognatori rispetto, come di consueto, al cinismo della storia (allo zenit in film come Le iene o The Hateful Eight, e – badate bene – non è semplicemente questione di misurare i litri di sangue). Cinismo che, qui, viene sostanzialmente abolito, probabilmente perchè la realtà dell’epoca fu già alquanto brutale (con riferimento al noto eccidio di Cielo Drive); così il regista stravolge le “regole” del genere in senso molto diverso dal solito. Questo è un punto importante da sottolineare, che giustifica almeno una parte delle critiche degli affezionati old school, che pero’ non mina più di tanto sul risultato finale.

Forse è qui che esce fuori la reale grandezza del regista: da sempre amato o odiato senza mezzi termini, da quello stesso pubblico che finisce per amarne feticisticamente la crudezza di alcuni passaggi, ma che in molti casi non guarderebbe nemmeno sotto tortura i film underground o artigianali che lo hanno ispirato (a cominciare dai registi western citati nella sequenza delle locandine). Quello degli affezionati di Tarantino, del resto, è uno dei pubblici più atipici e difficili da inquadrare, perennemente soddisfatti dai suoi film (quale che sia la sostanza), innamorati della fotografia magistrale del regista quanto esaltati dalla consueta scelta di assegnare ruoli marginali ai grandi del cinema (Al Pacino, ad esempio). In questi termini, pertanto, “C’era una volta…” cambia le carte in tavola, ed invece di essere il consueto omaggio monolitico ad un singolo genere (come è stato, ad esempio, The Hateful Eight rispetto allo spaghetti western), ne mescola almeno tre diversi: ed il risultato sta perfettamente in piedi.

Di fatto, Once upon a time in … Hollywood non è neanche associabile ad un genere ben definito, per quanto la dinamica della storia, che passa da un tono creativo e variegato ad uno decisamente più estremo (solo negli ultimi venti minuti di film), sia ereditata o accostabile – almeno in parte – a film come Avere vent’anni di Fernando Di Leo (anche lì, in effetti, si racconta dell’impatto sostanziale del mondo hippy su una società poco recettiva, ipocrita quanto intollerante). Ma resta la considerazione del ribaltamento del reale: questa volta, infatti, non c’è spazio per quel finale censurato ed insopportabile, ma si preferisce usare toni concilianti e lasciare lo spettatore in uno stato nostalgico e con un sorriso sulle labbra. La spiegazione del finale del film che molti hanno invocato (Google docet), del resto, sembra suggerire almeno una parte di pubblico spiazzato, quasi vittima di un paradosso del gatto di Schrödinger: soddisfatto per il film quanto insoddisfatto perchè le cose, nella realtà, non sono mai andate come descritto.

Nel raccontare la storia del declino di Hollywood e le contraddizioni del mondo del cinema, corrotto dagli episodi ben noti (con qualche riferimento velato alle vicende giudiziarie vissute da Polanski e Weinstein), Tarantino racconta la storia di un attore in declino e depresso, famoso per una serie TV western, ed al quale viene proposto di girare uno spaghetti western (il genere amatissimo dal regista: il titolo C’era una volta a… Hollywood, peraltro, omaggia almeno due dei capolavori di Sergio Leone). Se il sospetto di meta-cinema è piuttosto marcato sin dall’inizio, diventa esplicito: in genere, pero’, il meta-qualcosa al pubblico del cinema “ricco e mainstream” non piace. Tarantino nonostante tutto riesce, grazie alle alchimie ed all’ironia che caratterizza il suo stile, ad accompagnare per mano il suo pubblico anche in questi meandri, giocando in modo magistrale sull’alternanza tra vita sul set e vita reale. Sarcasmo e umorismo sono in questa sede, molto spesso, portati al parossismo, per la verità – soprattutto nella sequenza con protagonista l’attore che interpreta Bruce Lee, dipinto in maniera un po’ discutibile e lontana dall’immagine tradizionale che abbiamo di lui (anche se l’episodio raccontato pare che si basi su fatti reali). Ma in fondo va bene così, dannazione: quanto è vero che non è facile maneggiare un lanciafiamme senza scottarsi.

Rick Dalton è un attore immaginario che, secondo il regista, si ispira alla vita di tre attori realmente esistenti e misconosciuti (secondo IMDB si tratta di Edd Byrnes, Ty Hardin e William Shatner). Tanto focalizzato su di esso, e simbolo di un uomo che non riesce ad adattarsi ai tempi e al cambiamento, da essere sfruttato nel trailer diventato virale su internet, il quale farebbe pensare quasi ad una commedia leggera sul mondo di un set hollywoodiano, senza alcun riferimento evidente a ciò che invece succederà in seguito.

Volendo spaccare il capello in quattro, del resto, resta la considerazione sull’uso discutibile dei modelli di riferimento del film,che toccano vari lidi, strizzano l’occhio al Craven prima maniera (è vero che la home invasion è relegata al finale e non si sospetterebbe mai, ma rimane pur sempre il focus che farà esplodere la bellezza dell’opera; l’insofferenza verso il mondo hippy e la sua ambiguità, del resto, è lapalissiana) passando, ovviamente, per la tradizione western all’italiana; modelli che – come prevedibile – Tarantino elabora a modo suo, pensando al caro vecchio “grande pubblico”. Anche se non si tratta di un vero e proprio biasimo, rimane la considerazione inevitabile che citare il genere, una volta privato della sua componente caratteristica (che è sempre stata, storicamente, cinica e cupa) e dotandolo addirittura di un finale rassicurante, in questi termini possa più o meno (e senza nulla togliere) considerarsi una furbata in buona fede, girata per accattivarsi più pubblico. Che ci sta pure, a questo punto, dato che Tarantino gira film dal 1987 (anno in cui realizzò l’incompiuto My Best Friend’s Birthday), per quanto in tempi recenti (e senza scomodare capolavori di quasi trent’anni fa) lavori immensi come Django Unchained o Inglorious Basterds non lo avevano mai fatto.

In questo, se non altro, Once upon è profondamente diverso, parla un linguaggio nuovo, si adegua ai tempi ed omaggia il Cinema come “antidoto” agli orrori della realtà (quelli che Tate e Polanski hanno direttamente conosciuto, a proprie spese). E alla fine, forse, per il grado di percezione sociale odierno e per i numerosi orrori / nervi scoperti che il mondo dello spettacolo ci svela (a volte non troppo a sorpresa), va quasi bene così. E, per inciso, vederlo in lingua originale dovrebbe essere un’esperienza migliore di qualsiasi vituperato doppiaggio, proprio perchè gli audio dei film citati non sono doppiati, e ciò produce un effetto fin troppo straniante, data la natura del film.

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