Django Unchained: lezioni di western by Q. Tarantino

1858, “da qualche parte nel Texas“: Django viene venduto come schiavo al dottor King Schultz, un singolare personaggio che si rivela un cacciatore di taglie di nazionalità tedesca. I due stringono una singolare alleanza per perseguire i propri rispettivi scopi, mentre il protagonista va alla ricerca della moglie scomparsa…

In breve. Tarantino omaggia morbosamente lo spaghetti western, e lo fa con la consueta classe, le solite citazioni e le immancabili “licenze poetiche”: un genere dato ampiamente per spacciato dalle produzioni che invece sembra, in mano al regista, rivivere una nuova, romantica e sentitissima vita. Per quanto risulti sopravvalutabile dai fan un buon film, forse più divertito che divertente, comunque una chicca che nessun appassionato dovrebbe perdere.

Girato in 130 giorni dal regista che filma, a suo dire, la seconda parte di una trilogia storica iniziata nel 2009 con Inglourious Basterds, Quentin Tarantino propone la sua nuova opera appartenente ad un ciclo storico che vorrebbe, a suo dire, rivivere determinati periodi in una prospettiva basata sul cinema di genere: è la volta di Django, un classico interpretato negli anni 60 da Franco Nero (che immancabilmente, assieme al buon Tom Savini, recita un breve cammeo nella pellicola). La storia è, come c’era da aspettarsi, cinica, accattivante e citazionista: il protagonista è apparentemente un umile schiavo sballottato da una parte all’altra del Texas alla fine dell’Ottocento, che mostrerà presto le caratteristiche di un umano e valoroso eroe con il quale il pubblico potrà facilmente identificarsi. Spinto nel suo girovagare dalla figura di un medico tedesco (Cristophen Waltz) alla ricerca della moglie scomparsa, inizierà presto un’alleanza con il suo insolito compare, spingendosi nelle profondità delle terre texane fino a giungere, dopo oltre due ore, al suo sospiratissimo obiettivo: questo suggerisce che “Django Unchained” (ricordatevi che la “D” è muta: si legge “giango“!) sia una sorta di nuovo kolossal del cinema di genere, dalla durata realmente insolita che pero’, a dirla tutta, si lascia guardare in modo pacifico.

Del resto basterebbe citare lo splendido riferimento finale – un’accoppiata micidiale che ricalca in parte Scarface mentre evoca la colonna sonora portante de “Lo chiamavano Trinità” (Micalizzi) – per dire che vale assolutamente la pena di vedere questo film: inutile, a mio avviso, elencarne sterilmente pregi e difetti, perchè sono i soliti dei film di Tarantino (l’overload verbale della parola “nigger” sembra essere un maledetto marchio di fabbrica, con un chiaro riferimento alla blaxpoitation e a Pulp Fiction), quelli che i fan ameranno ed il pubblico generalista non potrà sopportare. A parte il finale secondo me sopra le righe, con tanto di consuete esagerazioni ed imprecisioni (un’esplosione talmente sproporzionata che manco in Zombi 3), bisogna ricordare quanto ormai il regista sappia giocare coi propri stessi stereotipi: sia ritagliandosi una bella particina da cinico (le dinamiche di vita e di morte sono le stesse viste in altri suoi film, per la cronaca), sia concedendosi minuti di autentica e brillante parodia (la parte dei Ku Klux Klan ridicolizzato a partire dai cappucci, dai quali i killer affermano che “non si vede un cazzo“, e questo nonostante siano stati amorevolmente cuciti dalla moglie di uno dei bifolchi). Impossibile non citare, poi, il dottor King Schulz che rivive flashback di violenza mentre ascolta Beethoven, con un chiaro riferimento all’omonima scena di Arancia Meccanica di Kubrick. In soldoni: in fan osanneranno – qualcuno ha detto che si tratta del miglior Tarantino di sempre, per quanto sia convinto che il meglio del regista rimanga nel passato – gli altri faranno spallucce e fingeranno di capire i riferimenti salvo maledire l’ennesimo, delirante calco cinematografico. Non dimentichiamo che, come ha ricordato Gabriele Albanesi in più occasioni, il cinema di genere può essere accusato di qualsiasi cosa tranne che di essere un dichiarato calco di se stesso: un gioco di continue rielaborazioni, revisioni e ricreazioni che definisce se stesso in modo inequivocabile.

Django Unchained risponde a questi requisiti in maniera eccellente, con l’unico difetto di aver realizzato un film probabilmente un po’ troppo lungo: il resto sarà, e rimarrà per anni, puro godimento per gli occhi dello spettatore.

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