Michael è un attore inglese di successo, tormentato da uno scandalo che ne sta minando le doti artistiche ed il comportamento sociale: nel tentativo di ritrovare un po’ di pace, si reca a casa della madre con la fidanzata. Raggiunto dagli altri elementi del cast del film che sta girando, risentirà sempre più pesantemente dei fantasmi del passato.
In breve. Un giallo-erotico-gotico che mette un sacco di carne al fuoco e che, alla prova dei fatti, si presenta come poca cosa: per quanto alcuni spunti possano rilevarsi di interesse, l’impianto sembra approssimativo e la recitazione, soprattutto, non è esattamente da film espressionista.
Concepito dalle menti di Antonio Cesare Corti e Fabio Piccioni, ambientato in Inghilterra ma girato in zona Roma (tra Parco della Mola di Oriolo e Palazzo Borghese in Artena), Follia omicida è considerata una delle operi minori di Riccardo Freda, dal quale sarebbe stato normalmente lecito aspettarsi qualcosa in più. Eppure, al netto dei limiti ben noti del film e sviscerati in lungo ed in largo in questi anni (su tutti: la recitazione non proprio esaltante e gli effetti speciali a volte posticci come nel caso del ragno gigante e della testa, fin troppo visibilmente finta, fracassata da un’ascia), c’è un presupposto di fondo molto interessante: ovvero l’idea che il protagonista compia regolarmente gesti efferati, che poi cadono regolarmente nell’oblio. Doppia personalità, insomma: un fondamento del thriller moderno, se vogliamo anche di quello più mainstream, che qui Freda sembra riuscire ad inquadrare con qualche anno di anticipo. La citazione iniziale del film, come spiegato nel libro Riccardo Freda di Roberto Curti, è inventata: Hieronimous Steinback è un filosofo immaginario del diciassettesimo secolo che serve a costruire l’atmosfera, ed al quale viene attribuita una citazione tutto sommato affascinante (“per secoli gli uomini hanno cercato la prova dell’esistenza del diavolo, ma sarebbe bastato cercare nel profondo della loro anima“, traduco a memoria).
Sulla falsariga di film come Gatti rossi in un labirinto di vetro e soprattutto gialli-erotici Il tuo vizio è una stanza chiusa e solo io ne ho la chiave, Murder Obsession (noto anche come “L’ossessione che uccide“, “Delirium“, un quasi ovvio “Satan’s Altar” ed un suggestivo”Unconscious“) vive nella dimensione del giallo classico a forti tinte horror, per quanto gli effetti siano posticci e, come si diceva prima, poco credibili ed efficaci. C’è anche qualche difetto, passabile (come sempre in questi casi) fino alla curva: del tipo i presunti poteri paranormali di uno dei personaggi (appena citati, peraltro), che non si capisce come si leghino al suo praticare il satanismo (sic). In linea di massima, quindi, se visivamente il film attraversa fasi considerevoli ed è suggestivo, evocativo e sinistro, d’altro canto non riesce a tenere in piedi la narrazione, che zoppica in più fasi, manca di ritmo e si perde in qualche lungaggine e ripetizione di troppo.
C’è anche una dimensione erotica accennata e piuttosto potente, dato che la camera non perde occasione per mostrare le grazie di Laura Gemser e Silvia Dioniso (entrambi nudi integrali). Il problema è che, di fatto, le scene di questo tipo finiscono per smorzare l’atmosfera globale del film, allentando una tensione che di suo fatica a rimanere tale e, di fatto, rende poco credibile che in quella situazione di gelo, tensione e sospetti reciproci ai personaggi venga davvero voglia di copulare (tanto più se lo fai con uno che tu stessa sospetti di omicidio).
Anche le idee più stimolanti del film non decollano mai: la presunta doppia personalità del protagonista, la figura del maggiordomo spettrale che fa tanto gothic, il sogno-allucinazione-realtà di Silvia che fugge da un inquietante sacerdote-zombi, che poi riesce a catturarla, torturarla, farle prendere parte ad un rito satanico (…forse: il sacerdote fa il segno della croce come un cristiano qualsiasi), per poi – meraviglia delle meraviglie – darla in pasto ad un ragno gigante (sic). Tutte cose che rimangono nella dimensione del b-movie medio e, viste oggi, non c’è da meravigliarsi che Freda abbia praticamente ripudiato la paternità dell’opera.
C’è anche spazio per alcune scene un po’ meno ovvie, tra cui l’ambiguo rapporto (incestuoso, e volutamente ambiguo) tra madre e figlio, molti personaggi su cui ricadono potenziali sospetti, la manipolazione dei fatti realmente accaduti, una vaga citazione (non sappiamo quanto volontaria o sentita) di una celebre scena dell’omicidio di Profondo rosso, e soprattutto l’evocazione della “Pietà” di Michelangelo, in una sequenza che si potrebbe tranquillamente definire avatiana, dato che mescola in modo spaventoso la dimensione mistico-religiosa con quella perversa dell’omicidio.
La descrizione comunque non dovrebbe, pero’, farci equivocare: Follia omicida rimane solo un discreto b-movie che non ebbe mai successo, probabilmente a ragion veduta, con una certa discontinuità di fondo e con brevissimi sprazzi interessanti. Visto oggi, è obiettivamente difficile immaginare uno scopo nel vederlo che non sia curiosità infinita, o magari un po’ di sano spirito filologico.
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