The Zero Theorem: il teorema di Terry Gilliam sul senso della vita

Quando Terry Gilliam girò Brazil nel lontano 1985 volle proporre un saggio distopico sulla società e sulla natura umana, sublimato dal personaggio incompreso di Sam Lawry, alla ricerca di una donna dei sogni che forse nemmeno esiste sul serio. Teoricamente questo film completa una trilogia ideale, che partiva con Brazil, si sublimava ne L’esercito delle 12 scimmie e si conclude, virtualmente, con questo film.

Con The Zero Theorem Gilliam modernizza ed attualizza ulteriormente l’impianto, mettendo un hacker egotista al centro della vicenda (Qohen Leth) che possiede un laboratorio informatico in una chiesa sconsacrata e presta il proprio lavoro per la multinazionale Mancom. Il suo obiettivo è ambizioso: aspettare uan telefonata che possa dargli le risposte che non riesce a trovare da anni. Qohen Leth è un esempio di nomen omen, peraltro: l’assonanza sembra essere con l’ebraico “Qoheleth”, Qohelethin”, “Koheleth”, con riferimento all’autore del libro sacro Qoelet o Ecclesiaste, che indaga anche sul senso della vita (che sarà presumibilmente diverso da quello raccontato dai Monty Python).

Cosa ancora più interessante, Qohen è un aspirante smart worker: vorrebbe poter lavorare da casa perchè si sentirebbe più a proprio agio che non negli asettici uffici della Mancom, e soprattutto non rischierebbe di perdere la fantomatica telefonata. Gilliam non ha previsto evidentemente la possibilità di avere un banale telefono cellulare, per cui ci piace immaginare che il tutto sia prettamente funzionale all’intreccio ed al suo complesso insieme di richiami simbolico-concettuali.

Il progetto The Zero Theorem fu travagliato, attraversò varie fasi (tra cui la scomparsa del produttore Richard D. Zanuck) e permise a Gilliam di ultimare il lavoro solo dopo 3 anni dall’inizio, periodo in cui si era occupato essenzialmente di cortometraggi.La fase di pre-produzione, ad esempio, fu incentrata sullo studio delle opere dell’artista tedesco Neo Rauch, pittore surrealista apprezzato da Gilliam che influenzò parte delle scenografie del film, e le cui opere sono state recentemente disponibili nella Galleria degli Uffizi. Girato in 16:9 puro, anzichè nei formati 1.81:1 e 2.35:1, ci si volle assicurare che si vedesse allo stesso modo su qualsiasi dispositivo ed in base a qualunque dimensione dello schermo, arrotondando i quattro angoli perchè avesse, nella modernità delle immagini, comunque un’aria più vintage.

I richiami sono al dominio delle multinazionali anche nella vita privata dei dipendenti, ed ovviamente lo smartworking (o working from home, come sarebbe più esatto chiamarlo) diventa un modo per evadere da un ritmo spersonalizzante che il protagonista rifugge in continuazione, evocando quasi l’anarchico Bonifacio B., che si aggira per Venezia nel film di Brass Chi lavora è perduto dei primi anni 60.

Lo Zero theorem è, nello specifico, la formula matematica su cui è stato incaricato di indagare, che si materializza inizialmente in una serie di incubi su un black hole (un buco nero). Al tempo stesso, compare una spiaggia all’interno di un dispositivo di realtà virtuale, in cui sogna di trascorrere il resto dei propri giorni assieme alla donna di cui è invaghito, Bainsley. Tendenzialmente, poi, The Zero Theorem è stato forse più discusso che visto, e non mi meraviglierebbe sapere che moltissimi – fraintendendo magari alcuni impianti scenografici grotteschi – si aspettassero una commedia pura, forse considerando il passato del regista nel gruppo Monty Python.

Il film è disponibile in streaming su Prime Video di Amazon.

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