Fantasticando su un ipotetico e probabilmente irrealizzabile viaggio tra le isole del Pacifico, qualche giorno fa, cercavo in rete informazioni a proposito dell’arcipelago di Tuvalu. Clicco sulla pagina di Wikipedia corrispondente, e l’enciclopedia online mi presenta un link di disambiguazione: oltre all’arcipelago di Tuvalu (curiosità: il dominio .tv, che spesso si trova associato ai siti di molti canali televisivi, è proprio quello assegnato alla nazione polinesiana) esiste anche un film che porta quel nome… non lo avevate mai sentito nominare? Beh, neanch’io fino a poco fa!
Incuriosito, cerco informazioni al riguardo – e, nonostante il film risulti essere stato vincitore di alcuni prestigiosi premi internazionali, le informazioni che si trovano sono davvero pochissime.
Oltre a poche frasi frammentarie sulla trama, sappiamo che il film è una commedia del 1999, che è stato prodotto in Germania con la regia di Veit Helmer, che i principali interpreti sono due buoni mestieranti come Denis Lavant e Culpan Nailevna Chamatova e, come chicca, alcuni pezzi della colonna sonora sono di Goran Bregovic. Ciò che ha attirato la mia attenzione da quel poco che si trova in rete è il fatto che il film sia praticamente muto, e girato in bianco e nero “ricolorato”, come se fosse un film dei primi decenni del novecento, ritrovato e restaurato. Da queste poche informazioni scorgo intenzioni artistiche abbastanza “fuori di testa” da reputarlo degno di uno studio più approfondito.
Investo del problema la redazione de Lipercubo e, grazie ai loro potenti mezzi, riusciamo a trovare la versione russa del film: io non conosco una sola parola di russo (a parte “Vodka“, ma vabbè) nè so leggere il cirillico, “ma che ce frega?“, il film è muto, la lingua non è un ostacolo. Preciso che non dobbiamo intendere il termine “muto” nel senso “classico” del termine – il sonoro ambientale c’è ed è anche abbastanza curato – quello che manca sono i dialoghi: oltre ai nomi dei personaggi, gli attori pronunciano, in tutto il film, non più di una trentina di parole singole, quindi avulse da un costrutto grammaticale e sintattico, semplici parole isolate ma necessarie per rendere comprensibile l’evolversi della storia.
Non sono solo la recitazione muta e la fotografia in un simil bianco e nero ricolorato a riportarci all’epoca del cinema delle origini, ma anche la mimica, l’espressività, i costumi e, non ultimo, il montaggio. Nonostante l’impianto di base sia quello appena descritto di un finto film da inizio novecento, le citazioni cinematografiche che vi si ritrovano sono innumerevoli e variegate: già nella prima scena viene proposto il primo piano di un uccello in cartapesta che vola sulla scena, modellato (volutamente) in maniera approssimativa, che fa il verso alla scena del film Uccelli di Hitchcock in cui i volatili attaccano la gente in uscita da una chiesa, così come sono numerosi i richiami alla comicità dei fratelli Marx o dei Monty Python, nonchè momenti onirici e visionari di Felliniana memoria. Va da sè comunque che i riferimenti che colpiscono subito l’occhio sono quelli a Charlie Chaplin e a Fritz Lang: il buon Denis Lavant interpreta il suo personaggio, Anton, in perfetto stile Chapliniano mentre la regia surrealistica paga dazio al Lang di Metropolis.
La trama del film segue il canovaccio tipico delle storie di Charlie Chaplin: tanto umorismo a denti stretti, personaggi principali che sono o assolutamente buoni o assolutamente cattivi (al massimo possono essere vittime di ingenuità e implusività come Eva, ma la loro vera natura non può mai stare “nel mezzo”), situazioni grottesche e amplificate fino al paradosso, ambientazioni decadenti e imprese improbe che fanno da contraltare ad eroi puri e semplici che alla fine, pur rimettendoci qualcosa, se la caveranno.
La storia è costruita intorno alle vicende accorse al povero Anton nel tentativo di salvare dalla demolizione la fatiscente piscina di proprietà di suo padre, Karl. Oltre alla burocrazia che (giustamente) intimerà ad Anton di ripristinare in brevissimo tempo una condizione minima di sicurezza in un edificio ormai cadente e trascurato, Anton dovrà lottare anche contro suo fratello Gregor, un costruttore affarista e senza scrupoli, che vorrà abbattere la piscina per costruire al suo posto un moderno palazzone residenziale. Il destino della piscina si intreccia con quello di Eva che, dopo la morte del padre – un vecchio capitano di marina per la cui dipartita Eva incolperà ingiustamente Anton – deciderà di partire a bordo della nave che il padre le ha lasciato in eredità per raggiungere la meta di una misteriosa mappa trovata in uno scrigno appartenuto al genitore: l’arcipelago di Tuvalu. Per azionare la caldaia della nave Eva avrà bisogno di un ingranaggio ormai non più disponibile in commercio, ma che ha notato essere installato nella caldaia della piscina, gemella di quella della nave. Tenterà così più volte di rubare il pezzo scontrandosi con Anton il quale, recuperando il pezzo sotrattogli da Eva, causerà l’esplosione della caldaia a bordo della nave. Ma, in un disperato tentativo di rubare l’intera caldaia della piscina, Eva capirà che il vero responabile della morte del padre è stato Gregor e non Anton. Così, Anton ed Eva, ormai coalizzati e innamorati, salveranno la caldaia della piscina proprio mentre Gregor, in preda alla follia, stava distruggendo il palazzo che la ospitava, la installeranno sulla nave di Eva e, insieme, partiranno alla volta dell’arcipelago di Tuvalu.
La storia, all’apparenza semplice e lineare come una favola dei tempi moderni, in realtà nasconde al suo interno infinite metafore e allegorie, sia nella recitazione iperespressiva, sia nella scenografia decadente, sia nel montaggio grottesco e surreale. Insomma, un film che ci sentiamo di consigliare a chi ama il cinema d’avanguardia e ai cultori dei film delle origini, un accostamento che può sembrare fuori posto – ma che in realtà non lo è, se si pensa che non c’è stata epoca artistica più avanguardistica di quella del cinema delle origini quando, appunto, una nuova arte è stata praticamente forgiata da zero.
Sono Saverio Chiodo, musicista per diletto e musicologo per studi (ma non per professione). Autore del libro “Woodstock: Alba&tramonto” edito da Arduino Sacco Editore nel 2010. Genere preferito: la musica, nel senso che per me esistono solo la musica buona e quella nociva!!!