Considerato il padre dello slasher-movie, è uno dei capolavori assoluti horror-thriller italiani: ricco di suspance, splatter, intrighi, buona recitazione e sano cinismo. Un capolavoro del grande Mario Bava, diventato un cult fino ad oggi anche se – bisogna dire – (ri)scoperto in ritardo a causa di una distribuzione non eccelsa, almeno all’inzio. Reazione a catena esalta all’ennesima potenza gli elementi filmici che hanno ispirato il primo Dario Argento, tanto che i richiami nelle inquadrature e nelle ambientazioni viste in Profondo rosso sembrano analoghe alla sequenza iniziale del film.
La catena di delitti del titolo, per inciso, fa riferimento ad una serie di omicidi che viene perpetuata per ragioni poco chiare: prima un’anziana contessa strangolata il 13 febbraio, poi il marito di lei, successivamente una ragazza che fa riaffiorare casualmente il cadavere dell’uomo. Il tutto ruota attorno alla proprietà di una baia con un lago, proprietà della contessa di cui sopra, su cui vorrebbe mettere le proprie grinfie più di una persona, tra cui un architetto con buone conoscenze nella politica. Al tempo stesso la cinica figlia del conte, assieme al marito, progetta di possedere la proprietà a qualsiasi costo: così esce fuori un complicato intreccio che si svilupperà in più direzioni. Dopo ulteriori omicidi effettuati per paura di essere reciprocamente scoperti, ne risulterà un quadro umano senza speranza, nè possibilità alcuna di redenzione.
La nota – e spesso ripetuta – somiglianza di Reazione a catena con la saga di Jason Voorhees, in fondo, si esplica nell’omicidio sanguinolento dei ragazzi nel cottage (la coppia viene trafitta alla schiena durante l’amplesso, una scena ripresa identicamente nel film americano, il quale, dettaglio non da poco, è uscito dopo questo di Bava) e nella difesa – in chiave ambientalista – della baia, un luogo incontaminato che è, peraltro, una sorta di prototipo di Camp Crystal Lake. Indubbiamente Reazione a catena è più intricato dell’episodio iniziale della nota saga americana, e la paternità al genere slasher credo rimanga più che lecita.
Inoltre Bava si orienta sul non politically–correct, denunciando grottescamente l’eccessiva nonchalance con cui si usano le armi, e più in generale la cinica barbarie a cui gli adulti abituano indirettamente i bambini. In altre parole, un po’ come suggeriva uno dei titoli provvisori della pellicola, “Così imparano a fare i cattivi“, che si stampa nelle coscienze degli spettatori in modo indelebile. Con risultato ancora più efficace, in fondo, se si pensa che “i bambini hanno paura del buio“…
“…io almeno il polipo lo mangio. Ma uccidere così, per hobby…“
Ingegnere per passione, consulente per necessità; ho creato Lipercubo.it. – Mastodon