Un giovane regista horror cerca di farsi produrre il suo splatter, ma il suo produttore – piuttosto infastidito dall’idea “non televisionabile” – pensa bene di mandarlo da un novello Stephen King nostrano, tale Ubaldo Terzani: uno che sa fare horror come si deve, nonchè intrigante personaggio che vive a Torino e si presenta, di fatto, come un piccolo Sutter Cane italico.
In breve. Un horror nostrano di buona fattura, seppur con i difetti tipici dei primi film (speriamo di una lunga serie), che è stato (un po’ prevedibilmente, purtroppo) boicottato da parte del pubblico più esterofilo. Non è un film perfetto, questo deve essere detto, ma possiede altrettanti pregi narrativi e concettuali: la satira contro il mondo ipocrita del cinema (che scrittura non attrici, bensì starlette intontite da droga e false promesse) è perfetta, il gran-guignol finale è incisivo ed impressionante. Il problema è che possiede caratteristiche (ancora) “anomale” per la maggioranza del pubblico – su tutte: essere-un-horror-italiano. Un’opera tanto semplice quanto ben delineata, in parte onirica e sempre coinvolgente, per un lavoro molto personale che, per come è, non piacerà a tutti.
Sembra quasi di vederlo, con la sua bottiglia di J&B in tasca, leggendo libretti ingialliti editi da qualche oscura casa editrice, maneggiando vecchie videocassette nella videoteca sperduta in fondo alla collina, con quell’aria nostalgica e passatista che lo rende del tutto inadatto alla vita sociale odierna. Mi riferisco al patito di film di genere 70/80: decine di comuni attori dall’aria rassicurante – che hanno girato, nella migliore delle ipotesi, il remake de “Non aprite quella porta” – gli passano accanto, e il tizio in questione rimane del tutto isolato, a disagio, ostentando un’indifferenza orgogliosa che viene inevitabilmente vista con scherno, ai limiti dello sfottò. Nel frattempo, il conformismo dilagante cerca di assorbirlo e di renderlo omologato ai gusti della massa, come in una sorta di Society (sempre attuale). Sarà anche una descrizione romanzata (stereotipata?), ma la riporto per mettere nero su bianco una premessa necessaria e molto semplice: non posso (nè voglio) credere che il fan sincero dell’horror sia davvero così impantanato su gusti archeologici da non riuscire ad apprezzare un lavoro onesto come “Ubaldo Terzani Horror Show“, che del passato è aperto debitore. Un film incentrato sul lato splatter e sanguinolento come espressione di un disagio esistenziale e lavorativo, rappresentato con intensità ed il giusto grado di tensione. Magistrale, a tal proposito, la rappresentazione del conflitto tra il protagonista ed il mondo del cinema mainstream: si sa, più viene esasperata la differenza tra i due antagonisti più il risultato sarà efficace e questo, evidentemente, Albanesi lo sa molto bene. Rinaldi è un ragazzo comune insanamente patito di cinema, con una fidanzata normale ed una vita fatta più di bassi che di alti, che si propone un po’ ingenuamente e viene frenato dalla società; Terzani è invece l’uomo di esperienza dal fascino magnetico, l’uomo che sa il fatto suo ed è capace di manipolare i propri simili a piacimento, perfettamente a proprio agio nel sistema. Un conflitto che diventerà molto presto delirio di sangue, sesso e morte; se a livello visivo il tutto è piuttosto impeccabile (grazie all’ottimo lavoro di Stivaletti), si registra invece qualche piccolo calo nella parte recitativa, e questo non tanto da parte della coppia Soleri-Sassanelli quanto da quella della Gigante, un personaggio un po’ anonimo inizialmente anche se, a suo modo, decisamente meglio delineato nella seconda parte del film.
Albanesi mostra di conoscere molto bene le dinamiche stringenti del cinema del passato, e propone un lavoro che si richiama apertamente a capisaldi del genere tra cui, tanto per avere un’idea, Tenebre di Argento, La metà oscura di King ed ovviamente – anche se solo per certi tratti – Il seme della follia di John Carpenter. Tutti lavori che riguardano la scrittura – o, come piace scrivere a molti in questi casi, il “meta-cinema” – tema che viene sviluppato con una grande abilità narrativa da un regista attivo sulla scena horror solo da qualche anno.
L’assonanza più evidente, sia a livello stilistico che di sceneggiatura, a mio parere, rimane comunque quella con l’opera del regista romano di “Profondo Rosso“, di cui Albanesi si mostra devoto debitore. L’accusa che è stata mossa prevedibilmente da alcuni, a questo, è proprio quella di aver prodotto un lavoro eccessivamente autoreferenziale: un giovane regista che filma la storia di un proprio alter-ego, sinceramente patito di Cinema e profondamente a disagio nella società perbenista che fa quello di oggi. Ed è proprio quando vediamo il protagonista recarsi alla festa di “VIP” che possiamo osservarlo: Alessio si trova coinvolto in un clima sfrenato ed edonistico, nel quale l’eccesso e la trasgressione sono all’ordine del giorno e – soprattutto – le “promettenti attrici italiani” non sono valutate esattamente per le proprie doti recitative (vedi a tal proposito anche Videocracy). Il suo disadattamento e la conseguente confusione che regna su di lui diventa un dardo velenoso, che Albanese sfrutta con grande abilità per criticare apertamente tale modus operandi. L’industria cinema, con la scusa del “non poter fare vedere sangue sulle reti nazionali“, ha alimentato quindi un sistema chiuso nel quale regnano corruzione ed ipocrisia.
Roba da Metallica di “And justice for all”, e cosa che viene messa nero su bianco quando Rinaldi viene apostrofato – neanche troppo gentilmente – “regista intellettuale del cazzo” durante una delle scene clou. Mica male, quindi, per un film che si presenta come un comune thriller-horror e che si spinge decisamente più in là, senza per questo risultare mai pretenzioso. Siamo d’accordo poi che qualcuno dirà che il meta-cinema ha rotto le scatole, o che è troppo scontato porsi dall’altra parte della barricata in modo oltranzistico, rivolgendosi a propria volta ad una nicchia di pubblico che viene regolarmente schernita dalla “gente che conta”: sono invece convinto che questo film (con la sua precisa identità, bella o brutta che sia) meriti un’ampia distribuzione e rivalutazione, prima di accorgerci che questo giovane regista faceva bei film ma che – ormai – non può più farne, ricadendo nell’insano “passatismo” di cui sopra.
A fronte di una trama piuttosto semplice – forse troppo, tanto che il finale non appare particolarmente sorprendente, seppur con momenti di tensione autentica – “Ubaldo Terzani Horror Show” è il personale tributo di Albanesi al cinema di genere thriller-splatter, nonchè una testimonianza indiretta (per quanto, ovviamente, romanzata) del suo lavoro reale.
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