Se volessimo individuare un lavoro che sia emblematico del meta-teatro, tanto da cambiare ed influenzare la maggioranza delle opere successive, tale lavoro potrebbe essere, senza troppe esitazioni, Sei personaggi in cerca d’autore. Opera del 1921 annoverata tra i 100 libri del secolo da Le monde (per intenderci a fianco di autori come Joyce, Lacan e Kafka), Luigi Pirandello ne stabilisce un impianto narrativo non convenzionale, inedito per l’epoca, per cui si stabilisce in primis una distinzione tra il personaggio e l’attore che lo interpreta, in modo marcato ed esplicito (quanto incomprensibile per parte del pubblico dell’epoca). I due ruoli si sdoppiano, tra l’attore egocentrico ed il personaggio sofferto e maldisposto a rivivere, suo malgrado, ciò che il fato impone di fare all’infinito. Un lavoro che figurerebbe bene anche al cinema, a ben vedere, tanto che ad esempio Gabriele Salvatores ha girato Happy family nel 2010 pensando, sia pur mediato dalla sceneggiatura di Alessandro Genovesi, a questo lavoro.
A dispetto di una forma d’opera vagamente didascalica che costringe, in qualche modo, ad esplicitare i dettagli dell’opera mentre la stessa è in svolgimento, la distinzione tra attore e personaggio resta fondamentale e, ancora oggi, fuorviante per parte del pubblico. Se questa considerazione apparisse poco ovvia è possibile notarlo anche solo dall’ambivalenza di fondo che vive ognuno di noi, ad esempio, tra il vero sè – qualsiasi cosa sia – ed il personaggio che interpretiamo sui social network. Del resto si potrebbe discutere per giorni sull’efficacia delle interpretazioni attoriali, specie nel caso di personaggi sofferti e paradossalmente reali come quelli dell’opera.
È la storia di un figlio abbandonato da genitori, che rifiuterà per sempre di tornare a contatto con loro mentre da un lato la madre sarà coinvolta in una relazione col suo segretario, dall’altro il padre rimarrà da solo trovando sfogo in una casa d’appuntamenti. Luogo in cui troverà proprio la propria figliastra, verrà scoperto dalla madre e, come se non bastasse, dovrà assistere ad una ulteriore tragedia nel giardino di casa. Ogni personaggio vorrebbe rimarcare il proprio dramma puntandosi i riflettori addosso, ed è per questo che gran parte del dramma resta in qualche modo sospeso, irrisolto. Uno dei motivi per cui “Sei personaggi in cerca d’autore” è considerato ostico da parte del pubblico, di fatto, risiede proprio nella scelta stilistica dell’autore di affidare parte della storia al discorso indiretto.
Rappresentata nello stesso anno dalla Compagnia di Dario Niccodemi al Teatro Valle in Roma, l’opera suscitò reazioni divisive, con parte del pubblico aperto alla novità e altra parte ostile (alcuni evocarono un “manicomio” a riguardo). Nonostante il successo dell’opera, qualche tempo dopo nei teatri milanesi, quella sera l’autore (presente alla prima) fu costretto sia ad uscire da una porta secondaria, oltre che a corredare le successive rappresentazioni con un’introduzione esplicativa (da cui il mood didascalico di cui sopra). Tanto cinema prese spunto diretto o indiretto da quest’opera, di fatto: L’angelo sterminatore di Buñuel – con il suo senso di trappola che caratterizza ogni personaggio, chiuso in una stanza da cui, senza sapere perchè, non può uscire – a finire con Old boy, che spinge oltre ogni limite la narrazione ed esplicita l’incesto, nell’opera pirandelliana solo ventilato.
In tempi più recenti Claudio Boccaccini ha proposto l’opera, in una veste sostanzialmente fedele alla versione originale e, a suo modo, attualizzata. Ci troviamo alle prove di una compagnia dei giorni nostri, in cui vengono evidenziate le bassezze, le rivalità ed i piccoli egoismi che li caratterizzano; i sei personaggi sbucano dal fondale con irruenza, suscitando reazioni inizialmente più annoiate che meravigliate da parte degli attori. Diventa chiaro, con il volgere dell’opera, che i personaggi presentano un passato oscuro, condannati come sono a ripeterlo senza poterlo variare oltre che costretti ad assistere ad una sofferenza evocativa sedimentata, impossibile da estirpare. Il senso di colpa per qualcosa che è avvenuto, riconducibile quasi ad una seduta freudiana in cui si psicoanalizzano i personaggi (non gli attori, significativamente), mentre questi ultimi rimangono super partes per gran parte del lavoro, rapiti dal proprio egocentrismo e banalità quotidiane. Anzi, in alcune fasi, mostrano la propria quasi totale inadeguatezza a rappresentare la storia dei personaggi, che assume una trama sempre più oscura fino a svelare la verità di fondo, fatta di scheletri nell’armaio, un mancato incesto ed una tragica, traumatica doppia morte di due di loro.
L’eredità culturale dell’opera rimane, ancora oggi, sostanziale.
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