Distribuito in Italia con il titolo “muscolare” “Il braccio violento della legge“, “The French Connection” (la connessione francese, che è la suggestiva pista su cui indagano i due poliziotti protagonisti) si basa su un autentico resoconto cronachistico di fine anni 60 (il libro omonimo dello scrittore Robin Moore): Eddie Egan e Sonny Grosso sono due poliziotti della narcotici di New York, che sorvegliano in modo estenuante Pasquale “Patsy” Fuca, che si scoprirà coinvolto in un enorme traffico di eroina con due referenti francesi (Jean Jehan e il personaggio televisivo Jacques Angelvin).
Friedkin appare molto consapevole del tono di forte verosimiglianza della storia, sceneggiata per l’occasione da Ernest Tidyman, e si preoccupa soprattutto di restituire il clima della metropoli d’epoca: sporca, alienante, minacciosa e anonimizzante, in cui i pedinamenti sono all’ordine del giorno ed in cui, peraltro, Egan e Grosso parteciparono con un piccolo cameo nonchè come consulenti esperti in materia. Il braccio violento della legge diventa subito un cult nel suo genere: non solo per la regia solida e basata su una rigida verosimiglianza, ma anche per le singolari, spesso atipiche per il genere, scelte stilistiche.
Riprese ruvide, di strada, che trasudano lerciume da ogni fotogramma, così come la costante dei pedinamenti – spesso e volentieri senza musiche, per cui la colonna sonora sono i suoni dei clacson del traffico cittadino. L’aneddotica del film è succulenta per gli amanti del realismo: basti pensare che la famosa sequenza in cui Hackman è camuffato da Babbo Natale per cogliere alla sprovvista uno spacciatore è stata realmente utilizzata nella storia vera da cui è tratto il film. Egan si vestiva da Santa Claus e passava del tempo con i bambini del posto. Il momento in cui cantava Jingle Bells, esattamente come vediamo nel film, era il segnale per i colleghi di intervenire con gli arresti. Numerosi arresti avvennero, per il caso in questione, seguendo questa dinamica.
Altri dettagli del film sono difficili da comprendere se non collocati nell’ambito gergale: in una sequenza specifica il personaggio Hackman accusa un personaggio di essere un tossicomane, e gli chiede più volte se “si punge i piedi” (“pick your feet“). Il riferimento è specifico al mondo dell’eroina: per evitare di lasciare segni visibili molti dipendenti da questa sostanza usano bucarsi le dita dei piedi. Sempre su questa falsariga Jimmy “Popeye” Doyle ripete più volte l’espressione gergale “picking your feet in Poughkeepsie” (pungersi i piedi in Poughkeepsie), che in italiano è diventato “Sei mai stato a Bronx”. Nonostante abbondino le fan theories a riguardo, il significato più plausibile è che la frase sia una tecnica di interrogatorio combinata: un poliziotto pone domande molto precise ed un altro, d’accordo con lui, ne pone altre di natura bislacca o non sense. In questo modo le difese dell’interrogato tendono ad abbassarsi e sarà più propenso a rispondere in modo veritiero alle domande del primo tipo. Nel libro da cui è tratto il film i due poliziotti raccontano di aver fatto uso della tecnica in questione durante vari interrogatori. In alcune circostanze la tecnica è nota come “poliziotto buono/poliziotto cattivo“.
Una delle sequenze più evocative de Il braccio violento delle legge, del resto, che rimane un film multi-sfaccettato con più tonalità d’umore coinvolte, il che giustificherebbe già da solo i numerosi premi vinti, non è necessariamente d’azione. Piuttosto avviene nel non luogo per eccellenza di ogni città, ovvero in metro: consapevole di essere pedinato, Charnier scende dal treno e fissa attraverso uno specchio la folla, finchè il poliziotto Jimmy “Popeye” Doyle (nel doppiaggio italiano, paternalisticamente, è chiamato “papà”) sbuca fuori e, per non farsi notare, finge di fare una telefonata. Mentre Doyle telefona alla centrale per avvisare che il grosso trafficante è evidentemente scappato dall’hotel, si trova costretto a cambiare registro per l’avvicinarsi di Charnier, poi chiude la chiamata. I due si accostano ai due lati di un chiosco, con il poliziotto che lo tiene d’occhio e il rivale che non guarda, pur sapendo di essere seguito. A questo punto arriva un altro treno: Charnier sale sul mezzo, Doyle lo segue, Charnier scende, Doyle lo segue di nuovo, Charnier sale ancora e – un attimo prima che il tutto diventi quasi slapstick – il treno riparte, con Doyle che rimane a piedi. È una sequenza atipica perchè priva di azione, colluttazioni e sparatorie, tanto da sembrare onirica, ed il suo peso è strettamente collegato con il finale del film.
Del resto Il braccio violento della legge è memorabile anche per la sequenza apripista dell’agguato a Popeye, con un cecchino che spara sulla folla ed il poliziotto costretto a improvvisare per proteggere se stesso e i cittadini incolumi. Questo avviene, peraltro, subito dopo il primo apparente fallimento delle indagini, quando la tensione sembra scemare per via di un duplice omicidio il che sancisce, indirettamente, che qualcosa nelle intercettazioni è andato storto. Sequenza apripista che si dipana nel celebre inseguimento con il criminale e degli ostaggi in metro, mentre il poliziotto protagonista lo segue con la macchina, fermata dopo fermata. La sequenza vista oggi appare interminabile quanto vigorosa (soprattutto nella sua brutale conclusione), senza contare che andrebbe inquadrata nel contesto in cui venne girata: cinque isolati di New York con il traffico controllato dalla polizia, mentre il set effettuava le riprese, con numerosi imprevisti e varie collisioni tra auto realmente rischiate.
Vale la pena spendere qualche parola anche sul finale del film, decisamente atipico per il genere perchè sostanzialmente aperto: tutti gli spacciatori sono stati arrestati tranne uno, Charnier, che si è dileguato nel nulla ma ha un conto aperto con Doyle. All’interno di una fabbrica abbandonata il poliziotto si guarda intorno, poi fa fuoco: ha colpito il suo collega federale Mulderig, lo stesso con cui aveva avuto precedenti dissidi. L’ambivalenza della trama la fa da padrone, perchè sembra quasi che l’abbia fatto consapevolmente, almeno a giudicare dalla sua reazione monolitica. Il tutto avviene in un’ambientazione lugubre, da vero thriller metropolitano. La sequenza fa proseguire la ricerca – ormai un’ossessione per il protagonista – e poi sentiamo un altro sparo, anche se non sappiamo cosa sia successo: possiamo solo immaginarlo. In pieno stile documentaristico, a questo punto, vediamo una sequenza di fotografie di vari sospetti e criminali, con annesso il loro destino nei sottotitoli: Weinstock è stato assolto per insufficenza di prove, Angie (la moglie dell’altro personaggio chiave, Sal) condannata per reati minori con pena sospesa, il conduttore TV con quattro anni di carcere, Charnier che scompare nel nulla, Doyle e Russo vengono trasferiti.
È un finale amaro e molto lontano dalla ricostituzione dell’ordine, cosa che nel genere non avviene peraltro quasi mai, ma l’amaro in bocca è in qualche modo “aromatizzato” dalla sostanza del film e dalla sua implicita non risolubilità (ammesso di volerlo vedere come poliziesco “sociologico”). Se i poliziotti potessero estirpare tutto il male, viene da scrivere, vivremmo in una società distopica, per cui probabilmente (come ribadito di recente nel Batman di Matt Reeves) il vero dramma dell’eroe contemporaneo sta proprio in questa impossibilità di risoluzione, con la minaccia di un Grande Altro / Charnier che continuerà a fare i propri comodi – oltre che, quasi certamente, e dettare legge, e tutti gli altri soli con i propri tormenti e le proprie colpe da espiare (a volte solo in parte).
Il braccio violento della legge riscosse un enorme successo all’epoca, vincendo 5 Oscar e 3 Golden Globe, fino a essere inserito (2005) nell’elenco del National Film Registry.
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