C’è ancora domani di Paola Cortellesi racconta la nascita dell’Italia di oggi
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Una casa popolare a Roma, nella metà degli anni Quaranta. Camera da letto. Lui e lei appena svegli.

Quella che si rivelerà protagonista della storia (Delia) apre gli occhi, saluta il consorte (Ivano), “buongiorno”, e lui senza dire nulla le da’ un ceffone.

Inizia così C’è ancora domani, esordio dalla regia di Paola Cortellesi, classe 1973 con un passato da attrice comica (una comicità iconica, anni Novanta, generazionale, destinata a diventare meme nei secoli dei secoli). Il film si avvale delle interpretazioni di un cast composto, tra gli altri, da Romana Maggiora Vergano, Valerio Mastrandrea, Emanuela Fanelli e Giorgio Colangeli, e arriva nelle sale – di nuovo, nella giornata dell’8 marzo 2024 – come uno dei film più discussi e visti dell’anno.

Per molti versi ritengo che C’è ancora domani sia il film perfetto, equilibrato a livello narrativo quanto impeccabile su quello della forma, ricco di siparietti caustici, drammi piccoli e grandi, micro-storie che si aprono e si chiudono, ritratti familiari grotteschi quanto amari che non sarebbero sfigurati nei grandi classici come Parenti serpenti. Con tanto di citazioni “esplosive”, protese a far simbolicamente detonare il capitalismo, sulla quasi-falsariga di Zabriskie Point (e forse addirittura de La casa nera). Tanto più che poi, nel suo incedere diretto, pregno di simbolismi e del tutto privo di preamboli, il film viene popolato da personaggi vividi, realistici, calati nel contesto romano del secondo dopoguerra, con quel perfetto alternarsi di ilarità frammista al dramma. Sorprende in positivo che si tratti di un esordio registico, e va riconosciuto il merito dell’opera oltre alla sua capacità di lanciare messaggi socio-politici senza appesantire o rendere l’opera vuotamente teorica.

Ad una prima analisi il film racconta una storia puramente neorealista (girata interamente in B/N), nel senso più filologico del termine: neorealista come figlia dei valori dell’antifascismo, ovviamente, ma altresì da intendersi come molteplice scoperta delle diverse Italie, per citare Italo Calvino a riguardo (Il sentiero dei nidi di ragno). È la storia di un mondo che sta provando a cambiare, appesantito dalle istanze tradizionaliste e irrigidite del periodo del fascismo, un mondo (il nostro) come tanti:  la storia di tutti, fatta di piccolo storie irrealizzabili, suggestioni di strada, sogni ad occhi aperti, incubi a occhi chiusi, famiglie da portare avanti, violenza domestica che appare brutalmente sulla scena (la sequenza grottesca della danza a suon di schiaffi è forse uno dei momenti più surreali e significativi dell’opera: una meta-rappresentazione della violenza che fa leva sulla reazione di una famiglia terrorizzata, non sul rendere esplicito ciò che accade). E poi c’è l’amore di una madre, l’amore diviso tra quello per se stessa, per la prole e per le altre donne, una madre che vorrebbe cambiare senza trovare necessariamente la forza di farlo, una madre sfinita, sfatta, consumata dall’anaffettività brutale quanto rassicurante di un marito-padre-padrone. E quei giovani visti prima come indifesi o addirittura insignificanti si prefigurano come piccoli portatori sociali di un cambiamento che oggi forse stiamo ancora aspettando.

Non è solo la consueta storia di violenza patriarcale e di sopraffazione: c’è soprattutto la sua rappresentazione come tabù sociali, una violenza che, forse in nome di una malintesa filosofia spicciola post-moderna, viene relativizzata dal darwinismo sociale, dal victim blaming, dal “se l’è cercata”, dall’idea che scrivere o pensare “not all men” basti ad assolvere e risolvere il problema, senza cogliere l’aspetto autenticamente intricato della questione: che il patriarcato è un mostro da abbattere, superare in accelerata, tenendo sempre conto che è un mostro con molte teste che terrorizza gli uomini molto più di quanto gli stessi siano disposti ad ammettere. Che non lo vogliano mettere in discussione è ovvio, da un lato: il patriarcato non ha solo sottomesso molte donne, ma ha adulato a suon di virili ceffoni molti uomini, i quali spesso (anche se di per sè progressisti) finiscono per assecondarlo o per trovare scusanti di ogni genere per non contrastarlo. E se succede – e di questo C’è ancora domani parla molto a lungo – che si arrivi a fare revisionismo e complottismo sul tema, in fondo, ciò potrebbe suggerire che i nostri padri – in senso lacaniano – abbiano più colpe di quanto possa sembrare. La morte del padre di Ivano, ad esempio, diventa il rito di passaggio, il simbolo che permette l’arrivo del voto finalmente concesso anche alle donne, che si recano in massa a votare nella diffidenza – e a volte con la minaccia – del mondo maschili, annichilito dalla potenza e dalla semplicità di quel gesto.

Si potrebbe obiettare, al limite, che troppo numerosi sono i temi di cui parla il film (il superamento della famiglia patriarcale, quello dei valori della tradizione usati come leva finanziaria, addirittura il potere del capitalismo – il bar che viene fatto saltare in aria assume un sapore zabrieskie – il diritto di voto che diventa primario rispetto a qualsiasi fuga romantica, il diritto alla libertà che si prefigura coraggiosamente come una conquista per umanità): ma è un’obiezione relativa perchè il film è intriso di storia, e la storia è fatta di dettagli. E più la conosci, più puoi discuterla criticamente. Perchè sì, certo, il titolo suggerisce che siamo ancora in tempo a cambiare le cose, a prepararci a vivere in una realtà migliore di quella attuale, che faccia da contraltare a quella basata sulla discriminazione e sul mix perverso di liberismo sfrenato e darwinismo sociale. Ma si tratta di un percorso lungo in cui scopriamo di essere umani, di avere delle passioni, di volere qualcosa che forse nessun altro desidera. Per rivoluzionare il mondo, mai come oggi nel mondo occidentale, forse, abbiamo bisogno di rimettere in discussione noi stessi. Non si può non ripartire da un ribaltamento radicale dei fondamenti di quella società, quella di metà anni Quaranta, figlia naturale di due guerre mondiali e del Ventennio fascista, incartapecorita nelle sue primordiali false certezze. Perchè si sa, la comfort zone creata da quel periodo che precede la rinascista economica italiana, nonchè la nascita della generazione boomer che – secondo una vulgata che non mi ha mai convinto del tutto, a dirla tutto – avrebbe avuto tutto senza fare nulla.

Delia non sarà certo Bella Baxter (Povere creature! radicalizza molte idee contenute questo film, se vogliamo, e le porta in una dimensione di rinascita, viaggio e riscoperta anti-edipica), ma vale comunque la pena assistere a questa storia. Pensarci su, dopo averlo visto. E provare a cambiare.

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