Herbert George Wells, uomo di cultura e innovatore di metà Ottocento, si incontra con un gruppo di amici a casa propria: uno degli invitati è Jack Lo Squartatore in incognito. Braccato dalla polizia, si intrufola in una macchina del tempo custodita dal padrone di casa, e si reca nel futuro. A quel punto non rimane, per il protagonista, che andare alla sua ricerca.
Nel suo concepimento di fondo, questo curioso film di fantascienza è affidato ad un soggetto e sceneggiatura del regista Nicholas Meyer, assieme a Karl Alexander e Steve Hayes: la storia è quella, vagamente ucronica e dal sapore retrò, di uno scienziato che, nella Londra vittoriana, ha creato una macchina del tempo. Si tratta di Herbert George Wells, lo scrittore che ha inaugurato la fantascienza che si ritroverà catapultato nel futuro alla ricerca del pericoloso assassino Jack Lo Squartatore.
Se i presupposti da cui parte la storia possono sembrare vagamente grotteschi, l’omaggio a Wells si prefigura in tutto il suo splendore, per quanto la storia funzioni più nei presupposti che nella effettiva risoluzione (e anche nello sviluppo, in parte). Ad impersonare l’alter ego filmico di Wells troviamo Malcolm McDowell, all’epoca reduce dal controverso Io, Caligola (girato da Tinto Brass, poi ufficialmente disconosciuto), qui nei panni di un eroe sobrio, misurato e letteralmente fuori dal tempo. Il contenuto e dignitoso Wells, con il suo aplomb , le sue premonizioni e la sua cultura pacifista (fu, nella realtà, anche sostenitore del socialismo), si ritroverà ad impattare con la caotica San Francisco del 1979, anno di uscita del film. Il regista sembra voler cogliere l’occasione per buttarla sul cinema politico o, se non altro, sociologico, ma l’intento riesce soltanto a metà.
Per quanto i presupposti siano accattivanti, vari dettagli non quadrano – e in una fantascienza di concetto come questa, a dirla tutta, certa ambiguità stona (per dirne una: se Jack è fuggito con la macchina del tempo che si aziona dall’interno di una cabina, per quale motivo la macchina ritorna “da sola” nel punto di partenza?). A poco serve, del resto, che si improvvisi la trovata della storia d’amore tra Wells e l’impiegata di una banca, conosciuta durante le confuse peregrinazioni del protagonista alla ricerca dell’assassino. Donna che, s’intende, raffigura la modernità e la annessa psicosi da cui siamo assorbiti, dato che si lascia stregare dal protagonista, per un po’ diventa (come da copione in questi casi) femme de non-recevoir e poi, naturalmente, accettare di viaggiare nel tempo con l’eroe.
Non è inaccettabile, del resto, la raffigurazione del gentiluomo d’epoca che rifugge con orrore la modernità e la sua innata violenza, trovatosi suo malgrado a contatto con il caos metropolitano: è chiaro che si tratta – almeno in parte – di un archetipo suggestivo, potente, assoluto. Ma questo non basta per poter parlare di fantascienza memorabile, dato che il collante narrativo appare precario e, soprattutto, il film sembra effettivamente troppo ambizioso e pluri-decorato da voler trasmettere mille idee (geopolitiche, sociali, psicologiche: la coprotagonista che racconta di rivivere in Wells l’istinto materno è un momento un po’ troppo didascalico per un film che si presenta, a suo modo, ben più raffinato di così).
Resta vero che il soggetto latita e che le fondamenta non reggono, anche perchè il film (non propriamente brutto, per la verità) sembra perdersi nella frenesia delle sue stesse premesse, diventando ad un certo punto quasi scontato, al limite del melenso, anche perchè sembra che ci si preoccupi più di non scombinare la storia d’amour che di dare la caccia allo spietato (e poco focalizzato) assassino. Per quello che vale, l’interpretazione teatraleggiante e atemporale di un uomo ottocentesco affascinato quanto terrorizzato dal processo da parte di McDowell merita di suo la visione, mentre si nota un relativo appiattimento degli altri personaggi e delle situazioni (incluso Jack, che dovrebbe essere un mattatore e sembra, al contrario, uno qualunque). Addirittura la sequenza topica dell’equivoco (il buono sospettato assurdamente di essere il killer) non decolla se non per qualche sprazzo, troppo breve e forse, anche qui, eccessivamente didascalico.
L’uomo venuto dall’impossibile si basa sulle prime 55 pagine del romanzo di Karl Alexander Time after time, a quanto pare inedito in Italia, da cui il regista ha tratto una storia diversa, dagli ovvi tratti fantascientifici, basata essenzialmente su una ucronia (fatti realmente accaduti ricostruiti in modo alternativo, tipico delle fan fiction e di film come Inglorious Basterds). Una sceneggiatura originale e relativamente divertente, per quanto mai davvero coinvolgente e con vari punti morti nella narrazione, che tendono a sgonfiare il climax iniziale costruendo una storia sempre meno incisiva e orientata quasi sull’ovvio. Dove domina una storia d’amore (a-temporale ed extra-dimensionale) tra una donna smarrita nell’alienazione della metropoli anni 80 ed un uomo fuori dal tempo, increduli e smarriti dalle mostruosità moderne, certo, ma per cui l’aspetto fantascientifico rischia di passare paradossalmente in secondo piano.
Del resto già il romanzo – da cui il film si distacca nello sviluppo, per volontà registica – non ebbe molto successo, considerato per certi versi ricercato quanto pretenzioso, per quanto il lavoro non risulti troppo diverso da una sorta di cinecomics (senza troppi mezzi a disposizione, e con quasi gli stessi dialoghi). La missione dell’eroe che viene dal passato (modello Terminator, alla fine), la figura di un nerd a-temporale, i viaggi nel tempo in pura psichedelia (non proprio tipo Ritorno al futuro, in pratica, quanto figli della fantascienza dell’epoca, sempre rigorosamente in bilico tra cult e artigianato). L’unica autentica perla del film, del resto, consiste nel mostrare quella macchina del tempo, un dispositivo puramente steampunk dal curioso e avanzatissimo funzionamento, che si immagina ideata e costruita da Wells in persona. È un dato di fatto che Wells annoveri, tra i suoi primi scritti (e prima dei suoi noti racconti e romanzi considerati, oggi, profetici delle nuove tecnologie), uno sulla possibilità di viaggiare nel tempo (The Universe Rigid, del 1891).
L’uomo venuto dall’impossibile è anche un modo poetico per riferirsi alla provenienza dal passato del protagonista, che suggestiona soltanto in parte e che tende a perdersi un po’ per strada, soprattutto per colpa di dialoghi prevedibili, personaggi poco caratterizzati e situazioni al limite dell’improbabile, in certi casi. Anche la linea temporale non è chiara: se è vero che il film parrebbe basarsi sul presupposto che esista esclusivamente la linea causale del protagonista, questo presupposto viene meno pur di affibiare l’happy end alla narrazione (l’omicidio che poi tale non è), con il risultato che gli ultimi minuti de L’uomo venuto dall’impossibile (per ogni altro verso divertente ed originale) risultano assai meno coinvolgenti di quanto avessero suggerito le premesse. Girato con tecnologia Panavision, questo fu anche il film di debutto alla regia di Meyer.
L’uomo venuto dall’impossibile è stato anche uno degli ultimi film della colonna sonora del compositore Miklós Rózsa, vincendo nel 1979 il Saturn Award per la migliore musica.
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