Joker: Folie à Diex è un film musicale sulla mente di Arthur Fleck

È uscito finalmente nelle sale il seguito del Joker di Phillips, sulla falsariga della consueta libera reinterpretazione del celebre personaggio della DC Comics. Un film che – almeno in Italia – si sta facendo notare per la grande quantità di recensioni negative al seguito, dovute (come vedremo, e a mio modesto parere) più alla forma che alla sostanza.

Bene sapere da subito che dentro questo sequel si alternano dialoghi e azione con parti da film musicale puro, che spiazzano più per il contesto che per la scelta dei brani. Impeccabili le interpretazioni di Lady Gaga e Joaquin Phoenix, se servisse scriverlo: il contesto, al tempo stesso, va colto e non è ovvio. Le parti musicali sono espressione di ciò che pensa e vive interiormente il protagonista, praticamente nella totalità delle occorrenze, e questo rende Joker: Folie à Diex un film di cui valga la pena discutere per quanto, a ben vedere, non manchino i difetti.

A fronte di dati di botteghino contraddittori e senza mezzi termini – dagli incassi milionari di alcuni paesi alle reazioni più tiepide in altri – resta vero che in molti hanno espresso critiche sostanziali al film, arrivando a invitare le persone a non andarlo a vedere, al posto di un più umile a me non è piaciuto per il motivo X, Y, Z. Resta il fatto che i film non sono i social – e per fortuna, verrebbe da aggiungere. Auspicare che nessuno lo veda, del resto, è la forma più classica di bias cognitivo indotto dai social, che poi è (nè più nè meno) quello che fa il protagonista: comportarsi in modo crudele in pubblico per accattivarsi gli applausi della folla, salvo essere una persona fragile e con traumi profondi o inconfessabili, perennemente tormentato dalla sua Ombra (quella che secondo Jung finisce per inseguire ogni uomo in qualsiasi circostanza). Vale la pena premettere che il film si apre su un grottesco cartone animato (!) che racconta le avventure di Joker tormentato dalla propria ombra, prima di finire catturato (e bastonato) dalla polizia. Chi spera che nessun altro lo veda sta tifando per la censura di uno dei pochi esempi di thriller / musical sociologico, peggio ancora (per loro) se qualche regista rifarà l’esperimento.

Magari significa, almeno per certi versi, che l’idea in fondo ha funzionato, o che quantomeno era abbastanza originale. Questo soprattutto se si pensa che il rischio, in questi sequel, è sempre quello di fare Joker 2: il ritorno della vendetta, insomma un qualcosa di fin troppo letterale o didascalico, da autentica saga horror anni Ottanta – cosa che nessun regista (penso) si sognerebbe di fare. Cosa che Phillips scansa con cautela, delineando una coppia di villain crudele quanto atipica. Il rapporto Harley/Joker è anti-fumettistico, in altri termini non vediamo cosa combineranno assieme (come il 99% del pubblico si aspetterebbe), non c’è alcun antagonista a combatterli, e soprattutto il loro rapporto è ambiguo: sia come forma che come sostanza, tanto che viene il dubbio che si tratti di una ennesima proiezione mentale di Joker e che, addirittura, il personaggio almeno nella sua controparte femminile cattiva non esista affatto.

Tutto molto interessante e stimolante, quindi, sia pure indulgendo su alcune piccole crepe narrative – su tutte: la rappresentazione della vita in carcere, che appare telefonata e semplicistica, soprattutto per le circostanze che portano a conoscersi Joker ed Harley Quinn, in modo che più improbabile non si potrebbe (anche se, nell’ottica di un film basato su una colossale allucinazione di Joker, confuso tra ciò che fa e ciò che vorrebbe fare per riscattarsi, potrebbe avere un senso). Del resto notiamo pure che a Phillips non piacciano i divieti di fumo, tant’è che nel film si fuma in continuazione e con tranquillità – anche in cella! – nonostante gli avvisi dell’OMS, verrebbe da ironizzare, ma soprattutto nonostante sia una cosa che più retrò, nel cinema, non si potrebbe.

Di Maxpoto – https://www.youtube.com/watch?v=xy8aJw1vYHo, Copyrighted, https://it.wikipedia.org/w/index.php?curid=10092599

Appena uscito dalla sala, per quello che vale, ero dominato da sentimenti contrastanti: il film di primo acchito non mi è piaciuto per tutta la prima parte, nella quale si dirotta allegramente sul genere film musicale senza preavviso. Senza capire, rimani sottoposto alla visione tuo malgrado, e coltivi la frustrazione di dover trascorrere gran parte della visione a leggere dei sottotitoli (le parole delle canzoni sono vitali per la comprensione della storia, perchè il più delle volte esprimono il sentimento del personaggio mediante allegorie e metafore). La seconda parte del film al contrario si risolleva, soprattutto quando mostra un Joker che decide dopo mille tribolazioni di mostrarsi senza maschera, esibendo al pubblico le proprie fragilità e barcamenandosi pericolosamente tra essere un feroce leader delle masse o soccombere da umano sincero alla crudeltà della società in cui viviamo. Il film si basa come anche il precedente sulla consueta sociologia pessimista, come nemmeno un saggio di Cioran potrebbe suggerire. Al tempo stesso, quel pessimismo è duplice, perché non riguarda soltanto l’impossibilità di essere amati senza illudersi, ma lascia il dubbio allo spettatore che qualsiasi forma di auto-affermazione sociale possa diventare puro autoritarismo. Questo Joker, in altri termini, sembra voler figurare simbolicamente la figura di un dittatore spietato ed arrivista, assolutista quanto egocentrico, in grado di alternare omicidi efferati (la scena del processo, ad esempio, in cui immagina di colpire a morte sia l’accusa che il giudice) a scenette da cabaret o da musical, panem et circenses, con la paura inconscia e ineliminabile di essere tradito da qualche fedelissimo (Harley, ad un certo punto, lo fredda senza preavviso, ed è la scena forse più evocativa del film).

Sembrano insomma, trascorsi i tempi in cui Joker (Arthur Fleck nella versione “umana”) voleva rimarcare la propria autoaffermazione ed il pubblico poteva darne la sua interpretazione anarchico-individualista: In questo secondo (e presumibilmente ultimo) episodio emergono aspetti parzialmente nuovi, sono ammissibili più letture della storia sia in senso psicologico che politico, soprattutto rimane il dilemma di simpatizzare emotivamente per un villain che poi, a conti fatti, viene ridotto dalla società a meno di un essere umano. E questo, già da solo, lascia spunti di riflessione considerevoli.

Quello che va ribadito è che tutte le parti musicali sembrano ricondursi ad allucinazioni del protagonista, o quantomeno a quello che sogna o che vorrebbe fare: vorrebbe perchè non può, perchè è un detenuto e perchè viene trattato come tale. La sua personalità è duplice non solo nel senso didascalico di buono/cattivo che convivono nello stesso personaggio, ma anche perchè il lato morbido della personalità di Joker è sostanzialmente ininfluente, quasi insulso, lo rende una vittima indifesa – mentre quello crudele è addirittura garanzia di successo e popolarità.

La narrazione segue delle direttive essenziali e ciniche, e in più occasioni delinea un mondo in preda al caos, ma anche, al tempo stesso, vittima di brutalità poliziesche e abusi di autorità di ogni genere. Lo capiamo dalle consuete dinamiche carcerarie di sopraffazione nei confronti dei detenuti, colpa aggravata dal fatto che si tratta di malati psichiatrici, ma lo riusciamo a scorgere anche nell’atteggiamento dell’accusa, in tribunale, nei confronti di Joker, che appare grottescamente sprezzante e sicura di sé. In fondo è lo stesso dilemma che abbiamo provato nel primo episodio: il pubblico è dirottato dalla parte di Joker, ma non può ammetterlo consciamente. Per cui rimane tutto confinato nella regione dell’inammissibile, del tabù, del non-detto, inclusa la figura ambigua, interpretata da Lady Gaga di Harley Quinn, lontanissima dallo stereotipo fumettistico (che prevede mazza da baseball e vestiti succinti che questa versione non presenta). Forse anche per questo il film è piaciuto poco: gran parte di ciò che dice è affidata al cantato, e non è il massimo per un non anglofilo provetto coglierlo senza leggerlo dai sottotitoli. Ed è forse questo il problema più grosso di questo film: più adatto naturalmente al cinefilo internazionale che a quello italianista, il quale non solo si aspetta tutt’altro genere di film ma rischia di passarne gran parte a leggere dei sottotitoli senza vedere nulla. Per una volta, avrebbe senso rivederlo più volta, ma è anche vero che non sia un film da rivedere una seconda volta, a conti fatti. Anzi, molto probabilmente sarà dimenticato tra qualche tempo, pur lasciando spunti estremamente interessanti in ambito sociale e un finale che più amaro non si potrebbe, e che forse vale da solo il prezzo del biglietto.

Il senso è chiaro: se Joker rinuncia al proprio essere immorale e malvagio per avere la libertà o provare a cambiare e farsi amare per quello che è nel proprio lato “in luce”, non potrà fare altro che soccombere alla crudeltà di una società che ne rimarrà delusa. L’intepretazione della parabola di un politico autoritario o di un dittatore che fa leva sulla crudeltà per accattivarsi i voti populisti sembra, a conti fatti, la più plausibile.:Un vero e proprio trattato sul gentismo, a questo punto, tutto incentrato sulla manipolazione delle masse, sul fatto che ormai i villain riscuotono successo anche fuori dal cinema, che nessuno oggi si meraviglierebbe di vedere un “Joker” capo di un governo, e che probabilmente sarebbe costretto a diventare sempre più infido e crudele per evitare di far farsi spodestare.

La Folie à Diex fa riferimento, per inciso, ad un disturbo psicotico condiviso o disturbo delirante, che si verifica nei casi di psicosi condivisi tra due persone (di cui una generalmente domina e l’altra rimane sottomessa). C’è sicuramente questo aspetto all’interno della trama, ma si sviluppa in maniera molto diversa da come ce lo aspetteremmo. Nulla da eccepire sul film, a conti fatti, fermo restando che non si tratta di cinema d’autore e che può essere considerato un’insolita incursione del thriller sociologico con il musical, con tutti i limiti del caso. Joker: Folie à Diex non è un cinecomics e, per quanto abbiamo scritto, è molto meglio così.

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