Akira: la post-apocalisse di Tokio secondo K. Ôtomo
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In un futuro post-apocalittico la città Neo-Tokio è in preda al caos: sullo sfondo, un progetto militare segreto che potrebbe spiegare qualcosa della situazione.

In breve. Magnum opus in ambito anime, contraddistinto da un disegno efficace, realistico, con gusto splatter-horror, una forte predilizione per le esplosioni atomiche e per la telecinesi. Per quanto troppo diluito a livello narrativo, resta un cult assoluto del suo genere.

Indiscusso capolavoro di animazione classica, ai tempi in cui la computer grafica aveva ancora un utilizzo limitatissimo, Akira è incluso – a ragione – tra i 1001 film da vedere prima di morire, secondo la celebre classifica stilata dal critico Steven Schneider. Akira (tratto dal manga omonimo del 1982, da cui pero’ differisce per il finale) è il lavoro più noto di Katsuhiro Ôtomo, regista, fumettista e sceneggiatore giapponese. Si tratta di un’opera di più di trent’anni fa invecchiata splendidamente, ricca di riferimenti culturali ben precisi (cyberpunk e post-apocalittico, su tutti) oltre ad altri meno individuabili e più scontornati.

Per quanto infatti l’opera sia pervasa di un sostanziale misticismo di fondo (la ricerca di un’umanità nuova, dopo l’apocalisse causata dall’uomo, evidentemente ispirata all’autore dalla tragedia di Hiroshima e Nagasaki), Otomo rimpingua di dettagli la storia, tra bambini invecchiati precocemente, bande di motociclisti e militari dai modi duri e privi di scrupoli: il tutto, almeno in parte, sulla falsariga di un suo lavoro precedente mai realmente completato (Fireball).

Chi ama le saghe post-apocalittiche come Fuga da New York dovrebbe trovare pane per i propri denti, insomma: questo da un lato affascina ed intriga, anche perché la storia viene costruita in modo sostanzialmente efficace, ma dall’altro rischia di farla disperdere, in molte parti, in una miriade di micro-storie (che diluiscono la trama), e che non sembrano sempre davvero necessarie. Pur partendo da un materialismo di fondo, in effetti, Akira è un’opera dalle pretese universalistiche, che prova a cercare le risposte indagando su dei singolari individui dotati di poteri ESP (Extra-sensory perception). Partendo da uno script di oltre 2000 pagine (poi ridotte a poco meno di 800), Akira (che in italiano significa luminoso, chiaro, intelligente) è costruito come dramma apocalittico ambientato in una Tokio aggredita dal caos, in cui bande di motociclisti imperversano ed uccidono, ed in cui il governo è perennemente assente ed instabile.

Alla base dei fatti, si immagina un disastro atomico nel 1988, che porta all’inizio vero e proprio della narrazione (curiosamente proprio nel 2019), alla ricerca del mistero che da’ il nome all’opera: cos’è davvero Akira? Esiste davvero, è un esperimento segreto, o è una sorta di divinità? Perchè l’esercito vuole tenerlo nascosto? Si tratta di una miriade di interrogativi a cui la trama, per a verità, risponde soltanto in parte, lasciando la narrazione ad una sorta di flusso di coscienza che, per inciso, vive i momenti migliori nelle allucinazioni del personaggio di Tetsuo (degne dei migliori horror) e soprattutto nelle rivelazioni finali – per quanto l’effetto big-bang, visto oggi, possa sembrare forse deludente rispetto alle aspettative (lecitamente maturate) durante la visione.

Costituito da 2.212 riprese e 160.000 fotogrammi a 327 colori (per l’epoca, un record), con l’ulteriore difficoltà che quasi l’intero anime è ambientato di notte, il che aumenta le problematiche da risolvere in termini di colorazione.

Da tempo si ventila la possibilità che possa uscire un film tratto dall’anime, ma la cosa è stata più volte smentita ed accantonata: e forse, tutto sommato, è molto meglio così.

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