Blade Runner 2049, che tentò di risolvere l’incompiutezza

In breve. Ben lontano dall’essere un film “necessario” (del resto quale film lo è?), Blade Runner 2049 è una buona fantascienza che conferma una particolare teoria sui sequel: tanto vale un riadattamento libero con gli stessi personaggi che un sottovalutabile sequel di una storia di culto, peraltro già perfetta nella sua oscura incompiutezza. Voler dipanare dubbi ad ogni costo, voler piacere a chiunque sfidando quasi quarant’anni di appassionanti fan theories risulta quasi fastidioso, e la sensazione di non-necessario opprime lo spettatore – specie quello che conosce la storia originale a menadito.

La mia impressione su Blade Runner 2049 è altalenante almeno quanto il ritmo del film stesso, sospeso tra momenti di alto lirismo ed oscuri precipizi in cui non si riesce a capire il ruolo. Del resto sarebbe troppo brutale sparare a zero su un film di genere – che non è un brutto film, tutt’altro – per via dello stesso fenomeno che accompagna certi appassionati di rock e metal, per i quali solo “l’old school” è degna di attenzione, mentre tutto il resto “per carità”. Voglio restare lontano da questo rischio, per cui passo a sezionare un po’ storia e dettagli della stessa. Si tratta di un sequel dell’originale Blade Runner del 1982, in cui molti anni dopo vengono scoperti i resti di quella che sembrerebbe la figlia (o il figlio) di una replicante (un robot altamente tecnologico, del tutto simile ad un essere umano). Il resto si gioca su ambiguità, riferimenti e ammiccamenti che lasciano senza dubbio affascinati, ma di cui secondo me è impossibile cogliere ogni sfumatura.

Denis Villeneuve dirige con grande stile e mezzi più che adeguati la sua storia, deliziando visivamente lo spettatore dalla prima all’ultima scena e cercando, se possibile, di emozionarlo e coinvolgerlo con sincera attitudine. Al tempo stesso, poi, infarcisce in modo sapiente il suo film di riferimenti all’opera di Ridley Scott: Rachel e Deckard invecchiato ed il loro indecifrabile e sublimato rapporto, il cavallo di legno (che ammicca all’origami dell’unicorno dell’originale) la pupilla in primo piano all’inizio del film, l’ossessivo test di riconoscimento per replicanti,  le pubblicità olografiche, l’atmosfera decadente e ammiccante al noir-cyberpunk.

Il tutto resiste fino ad un certo punto alla manìa citazionista fine a se stessa: se nel cinema di genere la cosa, del resto, funzionerebbe senza intoppi, in un film come questo (che ammicca apertamente al grande pubblico, tanto che la produzione ha ammesso di averlo sovrastimato numericamente) rischia di collassare e – udite udite – quasi annoiare lo spettatore. Beninteso che Blade Runner 2049 non è un sequel indegno (come tanti, purtroppo, ne abbiamo visti in altre situazioni), ma avrebbe avuto migliore fortuna come “riedizione libera” della storia originale: una cosa che in pochissimi azzardano, ma che secondo me potrebbe funzionare meglio di tanti azzardate riproposizioni e rielaborazioni di cult movie.

Superata l’incantevole prima parte della storia, è soprattutto nella seconda metà del film che emergono i limiti della stessa, la quale eredita dalla “fantascienza filosofica” di qualche decennio fa il feeling generale, ma lo declina traducendolo in canoni vuotamente comprensibili, al limite del semplicistico, in modo tale (forse) che risultino empatici per il mitologico, terrificante (cit. Fantozzi) e vituperato “grande pubblico“. Del resto sentire la storia di una città post apocalittica fumosa, meravigliosa ed oscura, in cui sembrerebbe che una replicante abbia avuto una figlia (!) è talmente sconfortante nella sua ingenua, materno-centrica concezione – a quando le “replicanti pancine” che scrivono con le “k” e contano l’età dei figli in mesi? – da risultare imbarazzante, almeno quanto vedere un replicante sfondare muri come se nulla fosse, in sequenze d’azione che c’entrano poco col feeling generale della storia, e che starebbero meglio in un ennesimo sequel di Terminator o, al limite, in un film con il buon Schwarzy.

La sensazione, nonostante queste ultime (che avremmo definito anni fa “americanate”) è tutto sommato positiva, perchè Blade Runner 2049 non mostra vere e proprie scempiaggini, coinvolge quanto basta ed è concreto quanto elaborato, ma i suoi toni spesso finisco per virare sul sentimentale-umanizzato ad ogni costo, cosa da cui Scott (per non parlare dello stesso Dick) è stato sempre avulso. Mostrare un replicante che sospetta di aver appreso l’umanità dai suoi “simili” è diverso, del resto, dal voler insinuare che in fondo “anche loro sono esseri umani”, come sembra suggerire questo film: il tutto per la stessa ragione per cui, ad esempio, non dovremmo dare per scontato che tutti gli alieni siano umanoidi.

Blade Runner 2049 sembra voler spiegare – e linearizzare, soprattutto – ciò su cui orde di fan hanno teorizzato per decenni, col risultato di essere un film che vive a sprazzi, è abbastanza lento e viene rallentato all’estremo nel suo (dal mio punto di vista, s’intende) interminabile finale.

Deckard, da poliziotto tipicamente noir cinico, tormentato da ricordi che non sa se sono suoi oltre che spaventato dai propri (presunti) sentimenti, diventa un personaggio vittima di se stesso e delle proprie paure, pieno di rimorsi e (forse vuotamente) nostalgico di Rachel; il resto dei personaggi, tra bellezze algide (soprattutto Ana de Armas, conturbante quanto dichiaramente immateriale), replicanti poco riconoscibili, cinici personaggi ovviamente esperti di arzi marziali (Steven Seagal, salvaci tu).

Non voglio dire che Blade Runner 2049 non valga la visione perchè non è così: il film, anzi, merita di essere (ri)scoperto, anche perchè spingerà tante persone a colmare la lacuna di vedere la Director’s cut di Scott. Certo non riesce ad soddisfare quelle che erano, per ovvie ragioni, altissime aspettative.

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