Dogman di Garrone è un racconto di rabbia e solitudine
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Un mite tolettatore vive in un quartiere povero nella periferia romana, vendendo cocaina e facendo piccoli furti per sopravvivere. Nel quartiere domina un ex pugile, con il quale “er canaro” (così come viene chiamato l’uomo di soprannome) ha un inquietante rapporto ambivalente…

In breve. La rilettura di Garrone del noto delitto del Canaro, che sconvolse le cronache italiane anni ’80 per l’efferatezza dei particolari. Con una regia solida ed una fotografia che propende alla ritrattistica, il film si presenta inteso e compatto, giustamente pluripremiato nel 2018.

Con questo film del 2018 Matteo Garrone, regista, sceneggiatore e produttore romano classe 1968, racconta – sceneggiando lo script con Ugo Chiti – uno dei più terribili e controversi fatti di cronaca nera italiana degli ultimi anni:  la storia è infatti ispirata apertamente alla vera storia di Pietro De Negri, meglio noto come Er Canaro, coinvolto in un caso dell’omicidio di un ex pugile, apparentemente per via delle continue vessazioni che subiva da quest’ultimo.

Garrone ci introduce in una Roma di periferia degradata, con personaggi che il più delle volte parlano poco, molte scene sono girate nella semi-oscurità e persiste un costante cielo plumbeo di sottofondo. Si mostrano, un po’ come nella tradizione di genere del poliziesco italiano, storie di spaccio, prepotenze e furti, dando spazio alla contrapposizione tra un protagonista ed un antagonista dai tratti ovviamente anti-eroici.

Dogman ruota quasi esclusivamente sulla contrapposizione tra il mite tolettatore (Marcello, ruolo interpretato da Marcello Fnte e per il quale Garrone aveva proposto Roberto Benigni) ed il burbero pugile Simoncino (Edoardo Pesce). Ed è proprio sul primo che si concentra la maggiorparte del focus: se il secondo, infatti, rientra nella figura del tipico criminale orrendamente prepotente, l’altro è di base una persona mite, amante degli animali e benvoluto da tutto il quartiere, sempre in prima fila per prendersi cura della giovane figlia.

Le cose, pero’, si complicano: dopo aver fatto da palo ad una rapina senza ricevere nulla in cambio, Simone propone a Marcello di rapinare il negozio a fianco del suo, sfruttando un buco nel muro. Ovviamente la polizia non faticherà ad individuare il responsabile in Marcello, che non tradisce l’amico e si sconta un anno di carcere senza coinvolgerlo. In seguito, il climax di tensione arriva allo zenith nel momento in cui Simone rifiuta di cedere la sua parte del furto a Marcello, malmenandolo ulteriormente abusando della sua prestanza fisica. L’occhio della camera di Garrone è spietato, in quanto non si limita a riportare la violenza ma anche, in varie fasi, ad esplicitare il clima omertoso dei vicini, che finiscono per emarginarlo proprio perchè, ormai, considerano un criminale anche lui.

È qui che la storia ha il suo plot twist: a dispetto delle apparenze mansuete, e proprio in funzione degli abusi ripetutamente subito, Marcello tende una trappola a Simone, approfittando della sua dipendenza da cocaina, e lo rinchiude in una gabbia per cani, uccidendolo e poi bruciando il cadavere. Secondo le parole del criminologo Francesco Bruno (citato nel documentario qui in basso), peraltro, si trattò di un rapporto sado-masochistico in cui i ruoli si erano invertiti.

La storia vera, in questo caso, fu parecchio contraddittoria: all’inizio si parlò infatti di una serie di torture effettuate dal tolettatore con dovizia di dettagli, poi successive perizie psichiatriche e legali fecero emergere che, di fatto, la maggioranza di quelle immagini da puro exploitation erano state soltanto pensate dall’uomo (l’uomo, ad oggi, ha scontato la sua pena, e si è mostrato riluttante a riprendere il discorso, mostrando comprensibilmente scarso entusiasmo per l’uscita del film). Nella realtà dei fatti, la storia presenta varie ombre e – mentre non si può fare a meno di notare il tono fino troppo sensazionalistico di certi titoli di giornale dell’epoca – si adombra anche il sospetto che De Negri non abbia agito da solo, e che ci fossero ignoti che lo abbiano materialmente aiutato.

Dogman, in definitiva (disponibile su Netflix già da qualche mese) è uno di quei film destinati soprattutto agli amanti del cinema di genere, a cui Garrone mostra di ispirarsi – senza pero’ farsi prendere la mano dalla violenza. Preferisce infatti affidare il finale ad una sorta di allucinazione vissuta dal protagonista, evidenziandone la disperazione oltre ad una sorta di riscatto: la scena lacerante in cui immagina di rivolgersi ai compagni di gioco a calcetto i quali, a quel punto, gli avevano voltato le spalle da tempo.

Ne emerge un ritratto umano dallo spessore considerevole, per uno di quei film ai quali – comunque la si pensi – sarà impossibile rimanere indifferenti.

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