Le fidanzate virtuali non passano il test di Turing

La presenza crescente sul mercato digitale delle cosiddette AI girl, le fidanzate virtuali – che oltre a fornire piacere sessuale (puramente meccanico-stimolativo) danno un feedback all’utente in termini di conversazione, sentimenti o empatia – ovviamente generati algoritmicamente, e sono il classico prodotto funzionalista promosso mediante marketing aggressivo, come ne abbiamo visti tanti in passato.

Una delle più discusse è orifice.store (sic), che propone una sorta di box dotata di orifizio con funzione di sex toy maschile. Oltre a farne uso meccanicamente, può darti feedback – ad esempio su come sia andata, su quando abbia apprezzato e via dicendo. Sfruttando una tecnologia molto simile a quella dei chatbot, e virando l’attenzione sull’aspetto emozionale, appare evidente come si stia cercando di funzionalizzare non semplicemente una esperienza sessuale, bensì l’intero ambito relazionale. Come ha scritto qualcuno in qualche commento su Youtube, forse la vera discriminante è distingere tra amare e sentirsi amati, mentre il marketing gioca proprio su questa confusione.

Monopolizzarlo fa evidentemente gola a chi vorrebbe fare impresa in questo ambito, senza dubbio con più dignità di chi propina le scam basate su criptovaluta, ma il vero punto è proprio questa globalizzazione funzionale che ci induce, in altri termini, a ritenere che la tecnologia possa rimpiazzare qualsiasi aspetto. Cosa che, per inciso, da un’ottica anche solo vagamente materialista non sembra possibile, dato che il piacere sessuale è attivato dall’esistenza di un “contratto” – due o più persone che vogliono la stessa cosa, oppure due persone che accordano uno scambio eventualmente in cambio di denaro. In tal caso non sarebbe neanche una questione puramente meccanica, non si tratta semplicemente di sesso materiale perchè esistono da anni sex worker che propongono GFE (GirlFriend Experience), in cui diventa possibile non solo un atto sessuale ma anche la fase di contorto, di affettività e complicità che normalmente ne fa da contorno. I tempi in cui il massimo della problematica maschile era innamorarsi di una sex worker, con conseguenza attivazione di un immaginario stereotipato da autentici boomer, nel quale solo le donne possono piangere e solo gli uomini si masturbano, siamo al punto che dobbiamo chiederci fin dove la tecnologia possa (o debba) spingersi, e a vantaggio di chi.

Orificeorifizio, letteralmente, l’oggetto del desiderio per eccellenza, è molto più di un nome che resta impresso nella memoria: è la sineddoche sessista per eccellenza. Una sineddoche che nella sua brutalità si rivolge ad un pubblico specifico: quello degli uomini macho e cisgender, targetizzati su internet anche dalle note espressioni di sessismo dei vari incel più o meno di professione (in Italia ne sono sbucati, sui social, almeno un paio; i loro post sono sempre molto in vista). Ridurre la sessualità ad un orifizio significa, a mio avviso, non tenere conto delle complessità in ballo, delle oggettive difficoltà relazionali che molti di noi possiedono, e con cui si continua pacificamente a convivere in attesa della vituperata “occasione giusta”. In attesa passiva dell’occasione che non arriva mai, ma molto spesso (esperienza diretta) anche in attesa attiva. Funzionalizzare l’esistenza con delle app o dei prodotti tecnologici che pretendono di sopperire ad ogni possibile mancanza ci disabitua, soprattutto, a saper gestire l’immancabile frustrazione che ognuno di noi è destinato a provare. Perchè di questo non importa a nessuno, ed è in gioco esclusivamente la commercializzazione spinta dell’esistenza, anche se si tratta di tabù, dato che il capitalismo divora tutto – e lo fa anche se si tratta di commercializzare la sfera sessuale-affettiva. Quando leggiamo lo slogan Transforming Intimate Experience (trasformare le esperienza intime) ci sentiamo spaesati come in un film di David Cronenberg, e non solo: ci capacitiamo di come la banalizzazione imperante abbia fatto danni sempre più profondi, spingendo non solo migliaia di incompetenti a blaterare di cose che non conoscono affatto sui social, ma anche portando imprenditori senza scrupoli (in molti casi)  a marketizzare quella massa informa che gli sta dietro, giocando con le loro mancanze e la loro incapacità di gestire la frustrazione.

Come si esce da questa ambiguità tecnologica, da questo sentire la tecnologia come una perenne minaccia, senza scomodare il consueto dove andremo a finire? Forse tanto varrebbe propinare il test di Turing anche a questi dispositivi, e chiedere realisticamente ad un certo numero di utenti di distinguere Orifice (o qualsiasi altro dispositivo analogo) da una persona in carne ed ossa. È grottesco pensarci, per certi versi, ma potrebbe funzionare. Convincerebbe molti all’impossibilità di funzionalizzare l’esistenza, che si tratti di sopperire alle mancanza con Tinder o con Orifice o con qualsiasi altro strumento. Perchè non è quello che usi, ma come lo usi – con quale spirito, con quale mentalità, con quante e quali aspettative agisci a fare la differenza. Sono tutt’altro che tecno-scettico, ma rimango dell’idea che si debba tracciare una linea di confine, e stabilire con una nuova etica che ci sono cose che l’informatica non potrà mai fare. E questo, naturalmente, è un limite che non deve ingenerare frustrazione ma deve essere semplicemente apprezzato, perchè definisce un confine sano e rimodella il mondo, costringendoci a rimodulare le nostre convinzioni più radicate e intolleranti.

Perchè se la nuova frontiera del marketing, anche qui, è vantarsi di aver superato il test di Turing (vantarsene vanamente, visto che il test non è misrabile o, se preferite, è “insuperabile”, e tutti coloro che si vantano di averlo superato con qualche software vaneggiano o, alla meglio, non sanno bene di cosa stiano parlando).

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