Il lenzuolo viola: le ossessioni erotiche di Roeg

Vienna: un composto psichiatra avvia una relazione passionale con l’ambigua e conturbante Milena, che scopre essere sposata e alquanto disinibita. Alex Linden cercherà di portare il rapporto sui binari che preferirebbe, cercando di convincere la donna a sposarlo…

In breve. Uno dei più famosi film di Nicholas Roeg, in grado di raccontare un’ossessione erotica con grande stile ed intensità; montaggio frenetico, quasi fuori dal tempo, e resa finale splendida. Indimenticabili le interpretazioni dei protagonisti Arthur Ira “Art” Garfunkel e di Theresa Russell.

Potrai chiuderla quella pratica, dottor Linden!

Definito dalla Rank Organization (una defunta società produzione e diffusione cinematografica) in modo lapidario “a sick film made by sick people, for sick people“, ovvero: un film malato, realizzato da gente malata per gente malata. E dire che, visto oggi, il suo tono generale è tutt’altro che sgradevole o appesantito, se non fosse per un’unica, terribile sequenza (abbastanza a sorpresa, dato il contesto) visibile nei pressi del finale.

Il lenzuolo viola è un thriller ottantiano a tinte erotiche incentrato su una contrapposizione: da un lato l’amore yuppie – composto, esclusivista e razionale, quanto ossessionato dall’amplesso – di Alex verso Milena, e dall’altro quello hippie, privo di vincoli e dai contorni vaghi, di Milena (questo film, peraltro, è uno dei motivi per cui la Russell è rientrata nelle 100 attrici più sexy mai viste al cinema). In questo, è doveroso segnalare (a parte la coppia protagonista, espressione di un vorticoso ed idealistico rapporto che sembra non risolversi mai) il personaggio del poliziotto interpretato da Harvey Keitel, classico “tipo” da film metropolitano, massimamente espressivo quanto abilissimo nel far confessare, in ultimo, la verità ad Alex.

Il film si apre partendo dalle conclusioni, e procede in modo non lineare: mostra le conseguenze della storia, ovvero Milena che ha provato a suicidarsi, portata in ospedale dal compagno il quale – neanche a dirlo – si mostra riluttante a parlare con la polizia, e sembra nascondere qualcosa. La narrazione viene ricostruita attraverso un interrogatorio e via flashback più o meno in ordine temporale, che aiutano a costruire progressivamente il loro reale rapporto, e soprattutto cosa sia successo poco prima del ricovero mediante morbosi parallelismi (soprattutto tra il “corpo erotico” e quello “clinico” di Milena). Il bad timing del titolo, del resto, finirà per fare riferimento alle tempistiche anomale trascorse tra il collasso della donna (che assume probabilmente una valenza anche simbolica, in relazione al suo rapporto con Alex) ed il suo ricovero in ospedale: cosa è successo realmente in quelle ultime ore? Ciò che nasconde Alex, in realtà è diverso da quello che la tradizione thriller imporrebbe (il solito tentato omicidio): e se questo fa eccellere in originalità il film, d’altro canto rischia di risultare – vista oggi, quantomeno – una pseudo-sorpresa. Nonostante questo, Bad timing rientra a pieno titolo tra i migliori thriller ottantiani, come storia, ritmo, intepretazioni e regia.

Un discorso a parte, poi, merita la resa del doppiaggio italiano, a mio avviso non troppo contestualizzato – secondo una certa, infelice tradizione nostrana, in grado di proporre dialoghi cambiati arbitrariamente ed approssimazioni di vario genere (alcune frasi di Milena non inquadrata, ad esempio, compaiono nei sottotitoli, ma non vengono doppiate) e questo finisce per far scricchiolare il senso dell’opera. Per citare qualche esempio, espressioni di frustrazione come goddamnit (letteralmente May the Christian God Damn it to Hell, che in italiano è una bestemmia o quasi) vengono rese semplicisticamente con “cazzo“: questa banalizzazione non è solo una necessità ma una costante, come vedremo. La versione doppiata sembra voler alleggerire la gravosità del rapporto – pesantemente morboso per lui, e sinceramente leggero da lei: nella celebre scena dell’amplesso sulle scale, ad esempio, dopo aver consumato un rapporto lampo, sentiamo Milena urlare istericamente “Amami” (un vocabolo non casuale, inteso a sottolineare l’ossessione possessiva che lei non sopporta): non certo il banale “vattene“, da commedia sentimentale, reso in italiano. Senza parlare dell’originale battuta “why don’t you fuck me to death” (perchè non mi scopi a morte, che assume un significato specifico in funzione della sequenza conclusiva) che in italiano è diventato un più educato “lo capisci che mi stai ammazzando“. In un film incentrato sull’ossessione possessiva, sulla donna libera contrapposta a quella oggetto e su due idee di amore contrapposte – malata e feticista versus libera e passionale – nonchè denso di riferimenti culturali ed artistici (da Klimt a Freud, le cui opere e quadri sono mostrati costantemente), l’audio in italiano crea un curioso parallelismo tra Bad timing (che è un ottimo thriller) e Il lenzuolo viola (che è un thriller un po’ più light).

Vengono in mente, a riguardo, la drammatizzazione della gelosia di un altro capolavoro piuttosto affine quale Possession, film che sarebbe uscito solo un anno dopo, e con cui Il lenzuolo viola condivide più di un aspetto: quello che cambia è il genere di riferimento, che se lì era l’horror puro qui diventa l’introspezione psicologica sui personaggi. Resta magari da chiarire il senso del finale, atipico e in parte enigmatico: due vite che sembrano ricominciare e non saper cambiare, a partire dal nuovo taglio di capelli di Milena, che non riconosce più Alex e lo dimentica forse per sempre. Alla fine dei conti, rimane un grande film con diverse sequenze indimenticabili, a partire da quelle passionali (da cui traspare un certo voyeurismo sul corpo della Russell, peraltro) a finire dal montaggio frenetico e imprevedibile che lo caratterizza.

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