Il mio amico in fondo al mare: come fare amicizia con un polpo (forse)

Durante le sue consuete immersioni largo delle coste del Sud Africa, Craig Foster nota, nel bel mezzo di una foresta di alghe, una struttura molto insolita: un cumulo di conchiglie curiosamente assemblate e incollate, neanche fosse un autentico pezzo di arredo appartenuto a chissà chi. Sotto quella struttura si nascondeva un polpo, che schizza fuori all’improvviso, guarda il filmaker per qualche istante e poi se ne va.

Affascinato da questo episodio, Foster decide di iniziare a fare visita ogni giorno a quel luogo, documentando il tutto in un film d’eccezione, originale Netflix, che ha affascinato il pubblico al suo debutto, e ha vinto pure un Oscar come miglior documentario.

Sebbene il film offra un ritratto dettagliato della vita di un animale selvatico, il vero soggetto non è tanto il polpo in sé, quanto il suo singolare rapporto con Foster. Se inizialmente lo stesso sembrava “diffidente” la prima volta, dopo circa un mese di visite i due erano quasi diventati “amici”, dato che l’animale si era fatto finalmente avvicinare. Come suggerisce Foster stesso, il polpo sembrava quasi “fidarsi” di lui, esplorando ripetutamente la sua anatomia.

Un’esperienza di connessione con il mondo animale che culmina in un episodio memorabile, che vediamo nel documentario ad un certo punto, ovvero il polpo che si adagia volontariamente sul petto di Foster, quasi facendosi “coccolare”. Il filmmaker ha dichiarato, a riguardo, che “non c’è sentimento più grande sulla Terra, i confini tra lui e me sembravano dissolversi gradualmente“.

Non ci sarebbe nulla di male, in un documentario in cui peraltro la qualità video è davvero pregevole e offre sensazioni che difficilmente potrebbero godersi per altre vie. Al tempo stesso qualcuno faceva notare quanto l’approccio antropocentrico possa risultare fuorviante, promuovendo una visione distorta della natura che debba essere addomesticata all’uomo (c’è pure un articolo di Repubblica a riguardo, che sviscera molto bene questo aspetto).

Per moltissimi anni, in effetti, i polpi (a differenza di cani, gatti e simili, sempre a contatto con l’uomo) sono stati considerati evolutivamente “asociali“, essendo molluschi separati dai “colleghi” vertebrati da circa 500 milioni di anni.

Per quello che ne sappiamo, i polpi girano raramente in gruppo, e si cercano solo in fase di accoppiamento: molti scienziati hanno riportato episodi di scontro tra di essi, vere e proprie “risse” tentacolari e atti di cannibalismo. Ad oggi, i biologi hanno dovuto rivedere le proprie convinzioni, dato che gli animali in questione sembrano, in alcuni casi, meno “solitari” e più tendenti a fare “amicizia” con altre specie.

Se nel cinema di fantascienza e horror sono stati spesso associati a mostri disumani e distruttori, nella realtà il polpo sarebbe decisamente più intelligente della media – e potrebbe, secondo una deduzione anche solo indiretta, diventare un vero e proprio animale di compagnia, un giorno. A questo punto però è un problema di come il pubblico desidera interpretare la storia, anche perché l’effetto peluche è già in agguato da un pezzo.

è dai tempi dei primi western, senza per forza scomodare film con veri maltrattamenti ad animali (ovviamente deprecabili), che si discuta dell’opportunità di sottoporre animali a operazioni documentaristiche o addirittura di narrazione cinematografica. Soprattutto quando questo ne forza la natura, senza chiedere il permesso. A quel punto forse anche il dottor Dolittle nonnne uscirebbe troppo bene, per quanto nel caso in questione l’umanizzazione del documentario sia proprio l’aspetto che gli ha riservato vari premi, nonché l’approvazione dello spesso vituperato grande pubblico.

Probabilmente l’ottica più corretta è quella di porsi in una via di mezzo, per quanto sia davvero inquietante l’idea che qualche uomo molto ricco, appassionato di immersioni, che guarda questo film in 4K, con la erre francese e la vestaglia, posso un giorno decidere (magari con la sua fidanzata ventenne) di addomesticare un polpo e di tenerlo realmente nell’acquario di casa.

L’idea generale, e se vogliamo anche la speranza, consiste nel fatto che – nella testa di chi ha realizzato questo documentario – si volesse valorizzare più l’armonia uomo-natura che il prendere il tutto alla lettera. Anche perché se si applicasse lo stesso criterio scientifico-militante ad altri film, davvero non se ne esce.

Craig Foster, in grado di mantenere il respiro per 6 minuti sott’acqua, e la socia regista Pippa Ehrlich (4 minuti di apnea al massimo) sono gli artefici di questo singolare lavoro documentaristico, che è ambientato nelle profondità dei mari Sud Africani e che da’ il via, peraltro, all’iniziativa di beneficenza nota come Sea Change Project. Il documentario è, ad oggi, uno dei più visti su Netflix del suo genere.

Il mio amico in fondo al mare (in originale My Octopus Teacher) è disponibile su Netflix a questo indirizzo.

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