Hans, studente di arte, si reca al mulino di Gregorius Wahl, artista eccentrico che ha costruito un enorme carillon con statue di pietra a grandezza naturale. Egli sembra nascondere un orribile segreto legato alla propria figlia, che presto si rivelerà agli occhi dello sventurato protagonista.
In due parole. Piccolo capolavoro del gotico italiano: ben costruito, discretamente recitato e molto interessante come prodotto “d’epoca”. Merita certamente una visione se siete fan di Bava ed Argento, mentre l’unica vera pecca è riscontrabile nel ritmo, decisamente da film d’altri tempi.
Rielaborazione in chiave horror-gotica da parte del regista perugino Giorgio Ferroni, costruito su una trama piuttosto classica, indicata soprattutto per i più stretti fan del genere. Il più delle volte, in effetti, ci troviamo di fronte a dettagli teatraleggianti e prototipi di jump scare che mantengono, secondo me – spettatore smaliziato moderno – un nucleo di sana curiosità storica o poco più. In questo caso, nonostante qualche limite di budget, bisogna riconoscere che il regista ci ha saputo fare. Evitando di mostrare atrocità in primo piano (si procedere spesso per accenni), e costruendo una trama piuttosto solida (sicuramente archetipica del genere), “Il mulino delle donne di pietra” riesce a mantenere viva l’attenzione dello spettatore, inondando lo schermo del suo macabro romanticismo.
Il 1960 fu un anno fondamentale per la svolta del genere gotico all’italiana, tanto che La maschera del demonio (forse il miglior film del genere, oseremmo scrivere) di Mario Bava arrivò nelle sale quasi contemporaneamente. In genere la nascita del genere è attribuita a questo secondo titolo, con il quale le differenze sostanziali emergono soprattutto dall’ispirazione di fondo: se per Bava fu il tema del vampiro, per Ferroni bisogna tornare al romanzo che ha reso famosa Mary Shelley, a soli 18 anni, nel 1818. La storia de “Il mulino delle donne di pietra“, di fatto, non è nulla di troppo diverso da una libera rielaborazione del mito di Frankenstein, con qualche dettaglio debitamente inserito. Ovviamente il perno dell’intreccio è incentrato sulla figura di uno scienziato folle disposto a qualsiasi cosa per soddisfare la propria sete di potere o gloria: e appena undici anni dopo, L’abominevole dottor Phibes , altro film profondamente archetipico, ereditò parte del feeling anche di questo film, questa volta ispirandosi al Vecchio Testamento.
Dotato di una pregevole fotografia e delle note pregne di tensione di Carlo Innocenzi, il film esplora la bizzarra storia d’amore tra lo studente e la figlia dell’artista proprietario del mulino, figura prettamente teatrale nonchè perennemente in bilico tra la vita e morte. Il carico di tensione indotto dall’opera – sceneggiato dal regista in collaborazione con Remigio Del Grosso, Ugo Liberatore e Giorgio Stegani – non è troppo frenetico, soprattutto per i canoni dell’epoca che sembravano in genere imporre film più lenti o laceranti che non il contrario, e questo porta ad una conclusione che, per quanto non certo imprevedibile, è sicuramente molto suggestiva.
https://www.youtube.com/watch?v=VpJybvXwZVk
Il film di Ferroni, a mio avviso, pur possedendo un innegabile valore storico, tanto da essere eletto incondizionatamente un cult, è a mio modo di vedere tutt’altro che perfetto, soprattutto nella prima metà che, in qualche modo, sembra mancare del mordente che attanagliava subito lo spettatore, ad esempio, proprio nel succitato capolavoro di Bava, in cui vediamo subito, senza mezzi termini, la strega marchiata a fuoco a cui viene applicata la maschera del titolo. Prima metà che, di fatto, sembra procedere in modo non troppo coinvolgente, per poi convergere in un climax di tensione sempre più accattivante.
Di fatto, quindi, pur essendo un film la cui visione potrebbe risultare “in salita” per molti spettatori – soprattutto i disillusi spettatori horror del nuovo millennio – va ammirato in tutta la sua spontanea bellezza.
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