“Venerdì 13” ci mostra il lato terrificante delle donne

La pellicola del 1980 Venerdì 13, diretta da Sean S. Cunningham, ha dato vita a una saga slasher diventata presto celebre in tutto il mondo: remake, reboot e crossover hanno infatti dominato gli schermi, grandi e piccoli.

Il primo capitolo di questa lunga serie dà in qualche modo i natali al protagonista vero e proprio, il temibile killer Jason Voorhees, che prima di divenire una minaccia fu a sua volta una sfortunata vittima delle vicende avvenute a Camp Crystal Lake (il Campeggio Lago Cristallo, secondo il doppiaggio italiano). Voorhees, infatti, è ormai un adulto che nasconde un’infanzia terribile: da bambino veniva bullizzato a causa del suo aspetto deforme e della sua idrocefalia. Le violenze dei suoi piccoli ma crudeli aguzzini si spingeranno fino all’annegamento del bambino proprio nel lago del campeggio, dove viveva insieme a sua madre Pamela. Jason verrà dato per morto, e la donna è distrutta dal dolore e assetata di vendetta, non sapendo che in realtà il bambino è riuscito a salvarsi ma vive come un selvaggio nel bosco, cibandosi di piante e piccoli animali e nascondendosi da tutti gli estranei che potrebbero fargli del male.

Nel primo film della saga Jason si scontrerà (o meglio, sua madre lo farà) con la protagonista Alice Hardy, una di quei personaggi chiave del cinema horror attorno cui si costruirà la figura della final girl. Prima di procedere con l’analisi, dunque, sarà necessario fare chiarezza su questa figura a chi ancora non la conosce. La final girl altro non è, come suggerisce il nome, che la “ragazza finale”, colei che riesce a sopravvivere agli omicidi che le avvengono intorno e che giunge all’ultimo scontro con il killer. A volte ne esce da vittima, altre da vincitrice, come nel caso di Alice, eliminando (ma solo temporaneamente) la minaccia.

Ma chi è davvero il carnefice in questo scontro?

Analizzando a fondo il legame tra final girl e killer, ci si rende presto conto che le analogie tra i due sono, sorprendentemente, molteplici. Prendendo quindi il film di Sean S. Cunningham come esempio, andremo ad analizzare i principali punti di contatto su queste figure tanto opposte quanto vicine e a fare dunque chiarezza su questo incredibile legame.

Partiamo dal principio: la final girl e l’assassino possiedono spesso un background molto simile. La loro infanzia è infatti costellata di traumi (grandi o piccoli che siano), in cui risultano solitamente vittime dell’emarginazione dei propri coetanei, da cui ricevono anche diverse vessazioni, o peggio della negligenza e del comportamento malsano dei propri genitori, cosa che genererà in loro dei forti gap psicologici – colmati nel caso del killer con la violenza.

Fin qui, fila tutto: abbiamo saputo che Jason è stato vittima dei bulli; quando compare Alice sullo schermo, invece, capiamo subito che è l’outsider del suo gruppo di amici, quella che sta sempre un po’ in disparte e su cui nessuno scommetterebbe mai in una gara di sopravvivenza.

Questo scenario quasi o per nulla positivo contribuisce a rendere il carattere di killer e final girl chiuso e introverso, ma estremamente analitico nei riguardi dell’ambiente che li circonda, che conoscono a menadito. Una delle caratteristiche che permette infatti alla final girl di arrivare allo scontro finale è proprio l’intelligenza. Questa caratteristica, unita allo spirito analitico, portano presto la final girl a capire la gravità degli eventi a cui assiste. Camminando tra i cadaveri dei suoi amici, acquisisce sempre maggiore consapevolezza di doversi scontrare con ogni mezzo contro un pericolo reale che la attende nel buio.

Ecco che Sean S. Cunningham decide quindi di offrirci i diversi punti di vista di Jason e Alice tramite l’uso di soggettive che differiscono lungo il film. Venerdì 13 si apre infatti con quella di Jason che si intrufola in uno dei bungalow del campeggio. È il detentore dello sguardo, e attraverso di lui lo spettatore assiste agli omicidi delle sue inermi vittime.

Alice, come appena visto, prende sempre maggiore consapevolezza della situazione man mano che gli eventi si svolgono e che la situazione degenera, e acquisisce perciò gradualmente il controllo dello sguardo.

Se prima dunque il punto di vista era maschile, e incentrato sui corpi mutilati e seviziati di ragazze (generalmente, alla donna viene sadicamente riservato più screen time quando viene uccisa – non prima di essere stata torturata – poiché la sua sofferenza soddisfa una pulsione sadica nascosta all’interno dello spettatore che assocerà le urla di dolore a quelle di piacere), adesso sarà di una giovane che ha imparato a fare appello al proprio ingegno pur di sopravvivere. Tramite la final girl noi spettatori guardiamo direttamente in faccia la sopravvivenza.

Prendendo il controllo dello sguardo, la final girl prende anche quello del film e ci conduce allo scontro finale, dove emergono finalmente tutti i punti in comune con il killer. La ragazza ha imparato a conoscerlo: nel modus operandi, nelle mosse, nella psicologia; sa come agisce e perciò riesce a contrastarlo.

Il binomio si azzera. Alice uccide la minaccia, diventando però ciò che ha combattuto per tutto il film. Attraverso il suo sguardo assistiamo alla decapitazione di Pamela Voorhees, la madre di Jason (che sotto le mentite spoglie del figlio minacciava Camp Crystal Lake).

La final girl ha perciò incarnato l’istinto omicida da cui è sfuggita per tutto il film. Ciò la rende vittima dei sensi di colpa, che torneranno sempre a tormentarla, peggiori di qualsiasi condanna da scontare. Non solo: ne ha vestito i panni, diventando crudele e aggressiva (caratteristiche generalmente associate agli uomini), e armandosi di quell’arma bianca che tramite l’azione penetrativa nella carne richiama reminescenze falliche e che Carol J. Clover sostiene che faccia di lei un “personaggio trangender in cui riescono a immedesimarsi in egual modo spettatori e spettatrici, e che è uno degli elementi di successo degli slasher.

Ma il più delle volte l’uccisione del killer è solo di facciata, e la final girl si ritroverà a doverlo nuovamente affrontare (stavolta, si spera, in maniera definitiva) al fine di liberarsi del peso di demoni che per anni l’hanno tormentata (come nel caso di Laurie Strode in Halloween).

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