Il settimo sigillo è invecchiato benissimo
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Il crociato Antonius Block ed il suo scudiero Jöns incontrano la Morte in persona su una spiaggia, mentre imperversa una tremenda epidemia di peste nera. Per rinviare la propria fine, il protagonista sfida il proprio avversario in una partita a scacchi.

In breve. Mistico, profondo, mai astruso, girato ed intepretato con ritmo e grande classe. Da inserire nella lista dei “film da vedere prima di morire” di ogni ordine e grado.

Il tema della morte (ovviamente) che gioca a scacchi con l’uomo – spietata, sicura di sè da un lato, a fronte di un Uomo sempre più annichilito e confuso dalla propria esistenza – venne ispirato a Igmar Bergman da un singolare affresco, presente in una chiesa svedese (la chiesa medievale di Täby Kyrka, precisamente un’opera di Albertus Pictor del 1480) che raffigura proprio tale scena grottesca. L’intera iconografia e simbolismo del film è basata su questo aspetto prettamente artistico, dato che si trattava di una chiesa che da ragazzo aveva visitato spesso. Giocare a scacchi è, per Antonius Block, solo un modo per prendere tempo (e probabilmente anche per non pensare alla propria fine), rinviando un Fato che non può essere evitato, che ovviamente accomuna la nostra sorte di mortali. Il celebratissimo finale del film, peraltro, sembra che sia stato nuovamente girato in una singola ripresa (pressappoco gli ultimi due minuti) perchè il regista aveva notato una nuvola dalla forma insolita, che ha voluto includere nel girato.

Ogni personaggio del film, caratterizzato finemente (tra cui spicca la meravigliosa interpretazione di Nils Poppe, attore comico qui alla sua prima interpretazione drammatica), non fa che giocare con la morte, ed infatti il tutto è destinato a finire nella celebre e simbolica danza macabra. Nel presentare questo, volgendo verso un fato che diventerà sempre più ovvio allo scorrere dei fotogrammi, Il settimo sigillo si prende anche la libertà di qualche momento ironico, dedicato sia alla futilità delle relazioni che, più in generale, al senso della vita. Il valore catartico di The seventh seal (uscito nell’anno 1957) è ancora oggi enorme, difficile da quantificare per la varietà e lo spessore dei temi che vengono trattati, tanto da renderlo uno dei film filosofici per eccellenza (oltre ad essere stato parodiato in seguito, ad esempio, da Monty Python ed il sacro Graal).

In tempi di pandemia, del resto, trattare di un film che è ambientato nel Nord Europa nel periodo della Peste Nera ed in cui, fin da subito, compare la figura della Morte come personaggio a sè stante, è a mio avviso ancora più suggestivo, se si contestualizza all’epoca in cui poco o nulla si sapeva su questa malattia, spingendo le persone verso una religiosità esasperata e anti-razionale. Proprio la religiosità è uno dei temi più profondi dell’opera, con qualche richiamo (nel tema finale del sacrificio mistico dell’eroe, soprattutto) a quanto proposto, un po’ di anni dopo, da un horror singolare ed atipico come La nona configurazione di Peter Blatty.

Significato del film

Su “Il settimo sigillo” di Bergman si sono scomodate fin troppe interpretazioni, molte delle quali autorevoli e che – per una varietà di ragioni, e perchè il web non mi sembra il luogo adatto per farlo – non è il caso di discutere in quanto tali. Resto dell’idea che un film del genere, diventato simbolo del cinema d’autore alla sua massima espressione, non ci sia troppo altro da aggiungere di quanto altri, prima di me, non abbiamo già scritto o detto.

Rimane pero’ un aspetto che secondo me non è stato troppo sviscerato: si cita quasi sempre di striscio che l’intreccio si basi sul lavoro teatrale (sempre di Ingmar Bergman) Pittura su legno (Trämålning), in Italia fuori catalogo da un po’ di tempo, della collana teatrale Einaudi e – da quello che ho visto prima di scrivere questo articolo – praticamente introvabile. La fortissima teatralità e derivazione teatrale dell’impostazione del film è evidente: sia dall’impostazione scenografica di partenza (razionalmente parlando, per esempio, il protagonista non avrebbe motivo di portarsi dietro una scacchiera, mentre una situazione iniziale sarebbe accettata senza remore su un palcoscenico) che da alcuni scambi di battute che sono squisitamente da palco – uno su tutti, lo scambio di battute, tipico delle commedie, tra il fabbro e lo scudiero: il primo drammatizza le proprie battute e l’altro, parallelamente, lo smonta.

Altro punto importante è Pittura in legno è un atto unico, che sintetizza moltissimi temi in poche pagine (il dono della sintesi è una dote rara anche nei più grandi registi, a volte, ed è sempre da apprezzare). Ulteriore aspetto importante è il ruolo – o meta-ruolo, se vogliamo – che esercita la figura del saltimbanco Jof, espressione dell’attore girovago (effettivamente esistente all’epoca) che va in giro a portare i propri spettacoli e che, soprattutto, è l’unico personaggio ad avere delle visioni, inclusa quella, splendida e ripresa in campo lungo, della danza macabra. Il ruolo dell’attore di strada, evidentemente, assume un’importanza quasi epica, proprio perchè le sue riletture ed interpretazioni lo pongono quasi come un messaggero mistico. Se cercavate un film sul senso della vita, a parte l’omonimo dei Python, potrebbe essere questo: solo che la risposta, in realtà, rimarrà aperta a varie interpretazioni, sia da credenti che da scettici.

Sul misticismo dell’opera, peraltro, che è l’interpetazione che va per la maggiore anche nella critica, intravedo qualche margine un po’ più flessibile, e – più che vederlo solo come una celebrazione della fede in funzione salvifica – mi sembra di ravvisare una sorta di richiamo al cogliere l’attimo – carpe diem proprio perchè, lì fuori, succede il pandemonio, e perchè la Morte segue i personaggi in ogni passo, apparendo e ricomparendo beffardamente quando meno te l’aspetti. Alla prova dei fatti, in effetti, emerge che il protagonista sta perdendo la fede, affiancato da uno scudiero che è magistralmente scettico e sarcastico, e questo secondo me rende la lettura del film in termini religiosi fin troppo semplicistica. Secondo quando disse Bergman, peraltro, girare questo film è stato fortemente liberatorio per la sua stessa paura di morire, e questo conferma che l’analisi dovrebbe essere molto più di ampio respiro di quanto l’ambientazione possa suggerire. Bergman innesta perfettamente l’idea teatrale originaria in un film (il rischio, per inciso, era quello di farsi prendere mano nell’autoindulgenza, e viene scongiurato), ed è secondo me davvero incredibile come un film così impegnativo e pregno di temi sia, alla prova de fatti, più accessibile di molti altri epigoni successivi, il più delle volte pretenziosi o troppo astrusi.

Vale infine la pena di ricordare – di sfuggita, ovviamente – che il tema del Settimo Sigillo, evocato dall’Apocalisse di Giovanni e lungamente sfruttato dall’arte, dalla letteratura e via dicendo, è stato oggetto di un singolarissimo concept album della band progressive rock Aphrodite’s Child, dal titolo 666 (The Apocalypse of John, 13/18) (anno 1972), in cui buona parte dei testi sono tratti dai suddetti passaggi – e che è anche un meta-album, in effetti, dato che fu effettivamente l’ultimo lavoro del gruppo e il loro trionfo definitivo dal punto di vista della critica.

Il tema sulfureo di uno dei brani più celebri del disco (“The four horsemen“) richiama palesemente l’atmosfera evocata dal film, e – mi permetto di osservare – non avrebbe sfigurato in una versione anni 70 magari leggermente più psichedelica dello stesso.

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