L’inquilino del terzo piano: il thriller mentale di Roman Polanski

Un timido impiegato è alla ricerca di un appartemento in affitto, e si reca in un condominio caratterizzato quasi esclusivamente da vicini di casa burberi e scortesi. La vecchia inquilina si è suicidata lanciandosi dal balcone, qualche tempo prima.

In breve. Non si può prescindere dalla visione di un film del genere se si ama il thriller nella sua forma più “mentale”. Un lavoro che ha fatto scuola (è del 1976), esempio più unico che raro di come si possa produrre un film pieno di tensioni con un minimo di pretese “cerebrali”, senza sfociare nella pesantezza fine a se stessa di molti futuri emuli. Un must.

Straordinario film diretto ed interpretato da Roman Polanski, che in questo contesto ama rappresentare l’orrore derivante da situazioni ordinarie (vicini di casa scorbutici), arrivando in modalità parossistica alla definizione di un quadretto da incubo esemplare. Non c’è sangue, non c’è violenza fisica in “Le Locataire“: bastano e avanzano il padrone di casa, la portiera nevrastenica e gli amici del protagonista, allegri e superficiali quanto basta ad innescare un letale meccanismo di senso di colpa, probabilmente la più importante chiave di lettura dell’opera. Basti considerare, a tale riguardo, quando Trelkovsky intravede Stella in chiesa, e poco dopo si lascia influenzare a tal punto dal sermone da dover uscire fuori di fretta. Isabelle Adjani, dal canto suo, interpreta il prototipo di donna bella e sensibile che ognuno vorrebbe incontrare, riempita di un’alea tipicamente settantiana a cominciare dagli occhiali da vista enormi per terminare sulla rappresentazione di un modello di vita completamente indipendente. Del resto se è vero che la vicenda si innesca in modo quasi del tutto casuale – Trelkovsky si finge amico della vecchia inquilina per avvicinare l’amica – in modo altrettanto inesorabile avverrà l’identificazione del protagonista nella povera ragazza, spinta evidentemente da un “complotto” condominiale a gettarsi dalla finestra. Rimane da discutere la complessa simbologia evocata dal regista, che ha probabilmente a che fare con la mitologia egizia annessa alla reincarnazione, diventando così il tipico film che lascia vari spiragli di discussione spalancati.

Per quanto la vicenda, poi, venga forse tirata un po’ troppo per le lunghe, “L’inquilino del terzo piano” è perfetto nella rappresentazione di situazioni, gesti e discorsi ordinari, e riesce appieno nell’intento di far spaventare (e riflettere) grazie a tre elementi di fondo:

  • l’inquientante sequenza delle persone che fissano il muro,
  • la forte visionarietà della scena con amici e vicini di casa che applaudono il protagonista (quasi lynchiana, verrebbe da dire a posteriori)
  • uno straordinario contributo orrorifico che si esplica, di fatto, nell’urlo (realmente agghiacciante) della vittima bendata all’interno dell’ospedale.

L’inquilino del terzo piano

assurge a ruolo di cult, cosa che possiamo accettare per una volta senza troppe domande ulteriori. Un film che sarà poi emulato ed imitato, spesso malamente, da numerosi altri cineasti, che raramente sono riusciti a raggiungere un tale livello di sintesi.

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