Nel saggio I mille volti di Anonymous l’antropologa Gabriella Coleman approfondisce la psicologia e il comportamentismo associato al gruppo hacker noto come Anonymous, in realtà espressione di gruppi differenti da ogni parte del mondo ed autentico collettivo-comune virtuale di hacker, spesso con pensieri e poliche diverse, se non contrapposte tra di loro.
Tra le mille incursioni analizzate nel libro con dovizia di dettaglia, spicca la definizione del cosiddetto lulz, una distorsione verbale del più classico acronimo LOL (Laugh Out Loud, utilizzato in alcune chat e traducibile con la frase “rido forte” oppure “mi sto sbellicando”). Molti gruppi hacker che operano per buttare giù siti web istituzionali o provocare disagio o doxxing sui social agiscono, secondo questa idea, puramente per divertimento, in una ideologia non formalizzata che viene ben espressa dal lulz. E quando la Coleman riporta le affermazioni dei veri hacker da lei intervistati (alcuni dei quali in seguito arrestati dalla polizia americana), molti rispondono con una motivazione secca, monolotica ed avulsa ad ulteriori spiegazioni anche per un’antropologa di professione: semplicemente, “l’ho fatto per il lulz“.
L’ideologia alla base del lulz è un mix di pensieri di vario genere, che deve molto al pensiero anarchico nelle sue varie sfumature (non ultima quella individualista), e che tende a collocarsi nel più controverso mondo del trolling, ovvero le persone che più o meno consapevolmente concorrono nel creare – usando vari strumenti informatici e tecniche di manipolazione – disagio su internet. Ancora una volta, solo per il gusto di generare il caos, esattamente come viene fatto dal gruppo che è stato noto per anni come LulzSec, un gruppo di hacker attivisti attivo fino al 2011 (e reinventato da molti altri soggetti nel corso degli anni, anche in Italia) che non hanno mai agito per il profitto, ma solo per divertirsi a causare mayhem (ovvero, distruzione casuale) in rete. Si agisce for the lulz e tanto basta, al massimo godendosi coi popcorn in mano l’effetto eventualmente comico della propria azione (imbarazzo dei CEO delle aziende violate, accuse fantasiose o generalizzate dei politici e via dicendo), solo occasionalmente includendo un messaggio politico di protesta al proprio agire.
Immagine tratta da https://en.wikipedia.org/wiki/LulzSec
Sono presupposti dai quali è necessario partire per analizzare, o almeno provare a farlo, una delle puntate più epiche in assoluto di South Park, proprio perchè dedicata al mondo dei troll. Articolata in più puntate ad episodi (quasi un nuovo film di South Park, verrebbe da scrivere), parte nel secondo episodio della stagione numero 20 e finisce nell’episodio dieci.
Il passaggio chiave avviene proprio quando la Danimarca cattura i troll ed interroga il padre di Kyle: in un delirio di onnipotenza, il CEO dell’azienda che ha causato una pesante violazione informatica ammette di “voler trollare il mondo intero“, anche perchè per farlo basterebbe “un leader politico in grado di stuzzicare la gente e farla arrabbiare“. Chiaro che, a quel punto, quel leader se ne starebbe lì a guardare mentre il mondo impazzisce, e tutto questo solo per il lulz, perchè sembra maledettamente divertente farlo.
La storia raccontata negli episodi della stagione 20, per inciso, è quella del padre di Kyle che coltiva uno strano hobby notturno: trollare sui social VIP di ogni genere, insultando ed esibendo umorismo di cattivo gusto. Il suo comportamento, alla lunga, provoca il suicidio di un’atleta danese che aveva subito una mastectomia, e che si sente attaccata e non capita dalla rete. La conseguente reazione sarà, da parte della Danimarca, di minacciare una terza guerra mondiale, mentre un attacco informatico provocherà ulteriore caos, mettendo online in chiaro tutte le attività compiute da qualsiasi persona su internet.
Una guerra provocata dal trolling, in effetti, specie in tempi convulsi come quelli che viviamo, assume un aspetto più realistico che sarcastico, ed è per questo che la puntata è particolarmente meritevole di visione (la trovate su Netflix, per inciso).