L’uomo più odiato su internet racconta di un caso clamoroso di revenge porn
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Gente qualsiasi, uomini e donne qualsiasi, famiglie qualsiasi. Una ragazza riceve da una collega una telefonata da film horror: ha trovato un sito in cui sono presenti pubblicamente le foto intime della stessa. Siamo nel 2012: se internet non è ancora quello che conosciamo, poco ci manca. La serie sull’uomo più odiato di internet parte dall’accortezza (ovvia, ma non troppo) di non mostrare davvero il sito originale, ma una sua simulazione realistica (inclusi i soggetti visibili) al fine di tutelare la privacy di alcune tra le prime vittime di un revenge porn massivo.

Vale la pena di ricostruire un po’ di storia del portale di cui si parla nella serie. Hunter Moore (classe 1986) realizza un sito che gli frutta, a regime, circa 13.000 dollari al mese, quasi tutti di proventi pubblicitari. Rolling Stone lo definisce senza mezzi termini “l’uomo più odiato su Internet”, e la nome viene ben esplicitata nella serie: Moore è un marketer di internet della prima ora, narcisista, cinico e sfrontato, che pubblica foto hot non consensuali basandosi su un meccanismo analogo a quello di 4chan. In sostanza crea questo portale in cui viene fornita una board anonima, per definizione de-responsabilizzante, in cui utenti qualsiasi possono avere la possibilità di pubblicare foto private. Vale la pena di ricordare, per la cronaca, che anche siti pornografici classici come PornHub, fino a qualche anno fa, fornivano esattamente lo stesso tipo di servizio (e solo varie pressioni esterne hanno messo fine a questa storia). Come ulteriore aggravante, oltre alle foto private sono messi in risalto i profili social delle persone hackerate (sia donne che uomini, ma soprattutto le prime), si praticava anche il doxing, ovvero numeri di telefono privati e indirizzi di casa.

Questo permette di comprendere meglio il contesto contesto digitale in cui ci si stava muovendo già allora: si costruiva non solo un’idea di business digitale sfrontata e senza etica, ma si trattava di uno scenario in cui Moore era un Super Io personificato, un guru carismatico di una inquietante The Family, una vera e propria setta di adepti disposti a tutto pur di portare avanti il progetto. Del resto il sito in questione non si prestava e non era pensato soltanto per l’eccitazione sessuale: c’era una ulteriore componente perversa al suo interno, determinata dal comportamento dei troll medi che lo frequentavano, i quali commentavano alla maniera di 4chan (insulti, cyberbullismo e via dicendo). Rifiutandosi di rimuovere le foto su richiesta delle sue numerose vittime, facendo anche leva su un sostanziale vuoto normativo tuttora presente in materia (solo parzialmente colmato, a livello mondiale), Moore arrivava a definirsi il nuovo Charles Manson, nonchè “un rovinatore di vita professionale”, facendo leva sul fatto he la percezione comune dell’epoca era (secondo la docuserie) incentrata sul victim blaming: se l’è cercata, è colpa sua. IsAnyoneUp è rimasto di fatto online per molti anni, durante i quali Moore ha dichiarato più volte di essere protetto dalle stesse leggi che proteggono Facebook. Una dichiarazione ancora più grottesca, se letta oggi, dopo tutto quello che è successo a Facebook sul fronte privacy.

La docuserie, sia pur con qualche lungaggine e con scarso dono della sintesi, racconta poi dell’incredibile twist a cui è soggetta la storia: mentre l’indagine sull’uomo da parte dell’FBI è ancora in corso (su iniziativa della madre di una delle prime vittime, come si vede), il gruppo hacker Anonymous si schiera dalla parte delle vittime, considerando Moore colpevole di aver abusato (oltre che di molte persone) del mezzo stesso internet. Secondo la nota etica del gruppo, infatti, l’egocentrismo su internet è considerato un abuso intollerabile, ed è qui che scatta l’hackeraggio contro di lui: viene violato il suo conto in banca, viene redatto un finto certificato di morte a suo nome, i suoi server subiscono un attacco informatico e tutti i file del nuovo sito di revenge porn, che avrebbe probabilmente pubblicato di lì a breve, viene distrutto.

Su iniziativa di una delle madri delle vittime, si conclude pertanto l’indagine dell’FBI su Moore: IsAnyOneUp viene chiuso nell’aprile del 2012, e ci vogliono altri tre anni perchè Moore si dichiari colpevole di furto di identità aggravato e favoreggiamento nell’accesso non autorizzato a un computer (a quanto pare, molte foto private sono state hackerate da terzi sulle email delle vittime). Nel novembre 2015, l’uomo viene condannato a due anni e sei mesi di carcere, più il pagamento di una multa di 2.000 dollari. È uscito dal carcere nel maggio del 2017. Sebbene Moore inizialmente avesse accettato di prendere parte alla docuserie in questione, ha in seguito cambiato idea.

Ad oggi IsAnyOneUp – uno dei più famosi e visitati siti di pornografi non esiste più, ma resta qualche traccia del comportamento degli utenti su Google: se inizi a scrivere isanyoneup, Google suggerisce ciò che si cerca del sito in questione. Archivio del sito, siti simili, residui del sito.

L’uomo più odiato di internet rientra certamente nelle storie che vale la pena di raccontare, anche a semplice memoria dei posteri, sfruttando uno stile-verità basato su interviste dirette a vittime e protagonisti del periodo. Forse la lunghezza eccessiva non gioca esattamente a suo vantaggio, in questo frangente, e la storia sembra tirata troppo per le lunghe, con un uso (e alla lunga un abuso di slang internet americano. Che ci sta e che racconta frequentatori di internet (al netto delle vittime) propensi al gangsterismo ed affetti da narcisismo ed egomania, cedendo forse un po’ troppo il passo alla drammatizzazione degli eventi che al racconto distaccato. Il che forse, date le circostanze, sarebbe stato preferibile e più sobrio. Del resto parliamo di un fatto per cui, all’epoca, non esistevano leggi a tutela, ed in cui chiunque si sarebbe potuto trovare coinvolto, con qualche strascico in materia che, anche in Italia, ci siamo portati dietro fino ad oggi.

La docuserie è disponibile su Netflix.

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