Dietro doxing, revenge porn e umiliazioni online potrebbe esserci semplice sadismo (schandenfreude)
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Sono sempre più numerose le vittime del cosiddetto online shaming, fenomeno preoccupante della rete che viene periodicamente analizzato e vivisezionato da esperti di informatica, psicologi sociali e sociologi: secondo Jon Ronson (giornalista nonchè autore de L’uomo che fissa le capre, da cui è stato tratto un celebre film) internet costituirebbe un habitat naturale per gli istinti umani della peggior specie (sadici o moralisti, in genere). Le vittime di questi fenomeni sono numerosissime, e manifestano tipicamente depressione, ansia e – in alcuni casi – disturbo da stress post traumatico.

Il fenomeno della pubblica gogna online è stato osservato in vari momenti storici, ed è recentemente stato oggetto di un articolo pubblicato dalla rivista Social Science Research Network: in esso viene evidenziato come, nel caso delle gogne mediatiche, le motivazioni che spingono a commettere questi comportamenti non sembrano legate all’anonimato online o al desiderio di fare giustizia: si tratterebbe, al contrario, di puro e semplice sadismo.

Premessa: è uno studio in pre-print (da prendere con le pinze)

Una conclusione impegnativa e che merita un approfondimento – anche per capire come è stato condotto lo studio e, nello specifico, quali possano essere i suoi limiti di applicabilità e/o affidabilità. Prima di convincerci di vivere in un mondo peggiore di quanto già non sia, del resto, vale la pena partire dal fatto che si tratta di uno studio in preprint, ovvero un articolo scientifico che non è stato (ancora) sottoposto a peer review (il processo di revisione collettiva e anonima tipicamente sfruttato per validarli e renderli effettivamente scientifici). Tali paper vengono messi velocemente a disposizione di altri ricercatori al fine di velocizzare processi di ulteriore ricerca e analisi nel settore, e vengono spesso travisati dai media generalisti, i quali tendono a trarne conclusioni non sempre esatte. Per quello che ci interessa, analizzare un articolo in preprint depone in favore del fatto che si tratti di uno studio sperimentale non validato, in altri termini da prendere con le pinze.

Come è stato condotto lo studio

Lo studio si basa su una serie di esperimenti social effettuati su un gruppo di volontari (gruppi di qualche centinaio di studenti), a cui è stata sottoposta una fake news che sollecitava pregiudizi islamofobi. I partecipanti sono stati lasciati liberi di commentare, inserire like o condividere la notizia, mentre solo una parte di essi è stata tutelata dall’anonimato mediante username farlocche generate a caso. Si è fatto uso dei cosiddetti “predittori“, ovvero funzioni matematico-statistica definite per l’occasione, allo scopo di comprendere i fattori più rilevanti atti a stabilire il sorgere del sentimento negativo tra gli utenti. Si è visto inoltre l’effetto prodotto dalle norme sociali, ovvero l’influenza del mondo attorno ai partecipanti in termini di giudizi esterni e/o timore / remissività ad esprimere la propria opinione. Se gli effetti del contesto sociale rimangono in qualche modo ambigui, quelli dell’anonimato non sembravano essere determinanti come si potrebbe pensare (questo suggerisce l’inefficacia potenziale di misure di abolizione dell’anonimato sui social, da sempre sventagliata da alcune forze politiche e smentita, alla prova dei fatti, da vari esperti informatici). L’articolo in questione mostra che l’anonimato non è un deterrente nè un elemento incoraggiante per comportamenti di online shaming. Se è vero che l’anonimato degli utenti viene comunemente addotto a causa primaria di questi comportamenti, c’è da sottolineare che questo studio non lo ha rilevato come determinante.

Conclusioni

È vero che quando un utente viene pubblicamente messo alla gogna su internet (mediante pratiche come il doxing, ovvero la pubblicazione di dati personali online, revenge porn o più in generale molestie collettive, incentivi alla derisione e al maltrattamento di una persona per i motivi più vari) le motivazioni alla base del fenomeno sono da rintracciarsi nel semplice sadismo? Lo studio in questione, nello specifico, aveva in considerazione tre potenziali motivazioni:

  1. il desiderio di una persona di fare del bene;
  2. la volontà di provare piacere dal farlo (desiderio edonistico);
  3. in un’accezione brutale della possibilità precedente, per procurarsi schadenfreude (gioia sadica per le disgrazie altrui).

Nel caso della fake news anti-Islam, i partecipanti sono risultati principalmente spinti da un malsano giustizialismo, o se preferite dall’idea che una certa persona meritasse una punizione. È quello che viene chiamato schandenfreude, “il piacere del danno”, il godimento determinato dalla sofferenza dell’Altro. Nessun desiderio di autentica giustizia, nessun buon proposito nemmeno vago, ma compiaciuto e autoreferenziale sadismo. I social network, in altri termini, se fosse confermato in peer review questo studio, potrebbero finire per esasperare l’aspetto giudicante degli utenti, spingendoli a essere crudeli verso “chi se lo merita”, il tutto a loro insindacabile giudizio.

(fonte, Immagine di copertina: Public Domain, Link)

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