Milano odia la polizia non può sparare: il poliziottesco di Lenzi che ha fatto scuola

Giulio Sacchi è un delinquente del milanese, che tra un misfatto e l’altro organizza il sequestro della figlia di un ricco industriale; il commissario Grandi si metterà sulle sue tracce.

In breve. Uno dei poliziotteschi più brutali e incisivi mai girati, molto violento in varie sequenze; un cult che ha fatto la storia del suo genere.

Milano odia: la polizia non può sparare è un classico del noir, o – se preferite del poliziottesco all’italiana, genere che si sviluppa su situazioni topiche, overdosi di violenza ed una forma di pessimismo cosmico che guida con maestria la camera dell’anarchico Lenzi. Potremmo includerlo senza indugio tra i migliori film in assoluto del genere: costruito in modo eccellente, ricco di colpi di scena, con ottime interpretazioni ed una sceneggiatura che fa perdere il fiato.

Questo film segna anche l’inizio del sodalizio tra Lenzi e Thomas Milian, che durerà per un totale di sette film e che sarà caratterizzato da un perenne rapporto di amore-odio; in questo caso Milian era scettico su Lenzi, ma quest’ultimo era fin troppo convinto che l’attore fosse ideale per quella parte, dopo aver tentato invano di proporla a Marc Porel (il prete di Non si sevizia un paperino).

Quella di Giulio Sacchi è un’escalation di crudeltà senza tregua, un’iperbole di violenza che viene resa volutamente insostenibile allo spettatore; Milian interpreta il “doppio” per eccellenza, ed è questo a renderlo spaventoso. Capace di fare il duro con la propria ragazza o con l’amico più fragile, per poi piagnucolare di fronte all’ottusa malvagità di un boss locale; il suo potere criminale si concretizza anche nella capacità di mimetizzarsi nella società che dice di odiare, in particolare nel sapersi costruire alibi. Questo crudele villain si nasconde nelle strade in cui viviamo ogni giorno, e si insinua come un serpente viscido nella società corrotta in cui viviamo, pronto a sferrare il prossimo attacco.

Del resto si è malignato fin troppo su film del genere – considerati solo vuotamente violenti, copiati dai cult americani, costruiti su stereotipi, fascistoidi nella morale (ammesso che una morale vera e propria sia individuabile). Il poliziotto che, alla fine, rinuncia alla propria integrità per un’esecuzione sommaria del criminale (la sequenza in mezzo ai sacchi della spazzatura) ha tolto il sonno a certa critica – in realtà una scelta coraggiosa e in controtendenza per cui Lenzi (regista, scrittore e sceneggiatore tra i migliori in assoluto, nel cinema di genere) è stato ingiustamente crocefisso.

Durante il film Giulio riesce a mostrarsi nella più perversa amoralità e cattiveria: ferisce a morte un vigile che voleva multarlo mentre faceva il “palo” ad una rapina, uccide un metronotte per 600 lire per poi sfottere apertamente la polizia che non ha modo di incriminarlo. Arriva anche a concepire il sequestro della giovanissima figlia di un “pezzo grosso” del milanese, assieme a due fannulloni suoi amici che organizzano il misfatto con una facilità incredibile. Infido e sospettoso di tutto e tutti, possiede le caratteristiche del bugiardo/bastardo che nessuno vorrebbe mai incontrare, ma da cui alcuni potrebbero essere quasi affascinati: il fascino del male nella sua più concreta purezza. Arriva all’apice della sua (in fondo vuota) cattiveria quando non manca di gettare nel lago la propria fidanzata – a cui ha rubato la macchina in precedenza – soltanto perchè teme di essere denunciato. Organizza un sequestro semi-improvvisato, per cui pagheranno tutti coloro che avranno la sfortuna di trovarsi da quelle parti: non esiste redenzione, nè pietà per nessuno. La celebre scena della roulette-lampadario con le donne ed il commendatore spogliati ed umiliati sessualmente (ma “i soldi non sono tutto“, ricorda Giulio in un puntuale momento di lucidità) entra di diritto nella storia del cinema per la sua valenza simbolica.

Dopo tutta questa crudeltà, tuttavia, quella scena finale, quella giustizia sommaria che vediamo negli ultimi liberatori finali, ci libera dal peso della storia, certo, ma continua ad aleggiare nelle nostre coscienze: viene il dubbio che quel tipo di giustizia sia l’unica via percorribile, e questa idea inaccettabile serpeggia viscida lungo la nostra spina dorsale. È a quest punto che le crudeltà commesse da Giulio Sacchi passano in secondo piano, rendendo il personaggio quasi “simpatico” allo spettatore, in un contrappasso che si potrebbe paragonare a quello, altrettanto atroce, che emerge da un film (considerato in genere più autoriale) come Arancia meccanica. In fondo Alex non è diverso da Giulio: passano la propria esistenza nel crimine e nella consapevolezza arrogante della propria impunità, ma alla fine – quando sono messi alle strette – il pubblico è spinto a simpatizzare per loro.

Giulio Sacchi è un malvivente sadico e vigliacco, massima espressione di crudeltà, antieroe cinico per eccellenza, nel quale paradossalmente il pubblico trova connotati umani, quasi umani, debolezze di ogni genere, ed è per questo che Almost Human (titolo americano del film) continua ad mantenere una connotazione pessimistica. E nessuno – forse – vorrebbe che il commissario Grassi (un immenso Henry Silva) premesse quel grilletto contro l’ormai indifeso Sacchi: il senso del film, alla fine, va forse cercato in questo.

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