Tra gli aggiornamenti Facebook degli ultimi tempi mi è capitata una considerazione interessante sul mondo del lavoro, sulla necessità di fare cose che non amiamo per poterci mantenere. Più in generale mi è venuto da pensare all’idea del sacrificio, questa necessità di doversi sacrificare sull’altare del lavorismo, del carrierismo coatto, dell’aziendalismo vissuto come una religione, con tanto di eco da rimprovero del Capo al Dipendente, o del Padre al Figlio, siamo una grande famiglia e non si guardano gli orari di lavoro, abbiamo fatto tanti sacrifici per mantenerti, chiamate subito Frank Gramuglia, sacrifici che manco fossero sacrifici umani. E se punti la sveglia sul cellulare per ricordarti che alle 18:00 puoi uscire dall’ufficio e mandare tutti in malora (almeno, puoi farlo per le successive dodici/ventiquattro/quarantotto ore), questo può essere il film che potrebbe piacerti guardare.
Girato in soli 17 giorni, con un taglio da cinema verità o mockumentary, tratto da un soggetto di Takuma Takasaki e di Wim Wenders che firma anche la regia. I giorni perfetti sono quelli ordinari, routinari, nella media, di un uomo tranquillo che vive a Tokio, il quale ha deciso di stabilirsi in una casa modesta, da solo, lontano dai familiari, dedito ad un lavoro umile ed immerso tra libri e le amatissime audiocassette di musica rock. Saranno giorni ordinari ma non si tratta di un inno alla mediocrità (come potrebbero sospettare i consueti critici passivo-aggressivi), tantomeno degli strani giorni parodizzati da Nanni Moretti: è proprio il senso della vita, un senso che bussa allo schermo e richiama l’attenzione dello spettatore. Facendolo riflettere sulla bellezza dell’ordinario, del niente di speciale, del godere del contatto col mondo e dell’essere nel mondo. Riuscire a farlo senza utilizzare un linguaggio epico o fuori dalle righe, bensì elevando l’ordinarietà delle vite reali a soggetto di un film, non è una cosa da poco.
Hirayama è l’addetto di un’impresa di pulizie, umile e silenzioso, del quale vediamo fin da subito la vita di ogni giorno. Un’esistenza semplice, essenziale, dal tocco anonimo e delicato, che include l’esposizione di un vissuto che potrebbe essere lo stesso di molti di noi, catapultati nostro malgrado in città enormi nelle quali (da single perfettibili e periodicamente in crisi esistenziale) non sempre è facile fare amicizie, frequentare qualcuno, vivere spensieratamente, trovare il tempo di fare ciò che si ama. Hirayama è in effetti molti di noi, probabilmente non tutti (niente è mai causa di tutto) ma di sicuro molti sì. Ammesso, ovviamente, che persista una passione sincera per il rock, che si ami leggere, che si abbiano i locali preferiti in cui andare in pellegrinaggio (se c’è una persona che ci interessa che sappiamo di trovare lì, meglio), che ci sia una routine mattutina e che si ami acquistare sempre la stessa bibita dallo stesso distributore.
Perfect days è un film sul vedersi, sul ritrovarsi negli stessi posti, alle stesse ore: storie ricorrenti di vita quotidiana che non sarebbero mai virali sui social. In certi momenti, ovviamente, capisci quanto Wenders prenda le distanze dal modo di fare cinema più ordinario di questi anni, contrapponendo alle urla stroboscopiche del mainstream un discreto sussurrare, un racconto di vissuti, manìe e dettagli quasi inconcepibili per molti (Hirayama che pulisce un water con cura talmente marcata da sfruttare uno specchietto, in vari momenti, per verificare la pulizia dei lati più nascosti). Un lavoro modesto, umile quanto fondamentale, come sanno bene i vari avventori dei bagni pubblici che vi si recano per le proprie urgenze: perchè tutti abbiamo le nostre necessità fisiologico-corporali, ma troviamo pure il tempo per partite a tris a distanza, ritualità urbane da assolvere (il proprietario di un bar che ci accoglie sempre con la stessa formula) fotografie al paesaggio che muta nel tempo, le quali vengono schedate per data, come un archivio di parte dell’esistenza, quasi come i nastri di Krapp di beckettiana memoria. E poi incontri fugaci con amici e colleghi, luoghi a cui ci affezioniamo (in un modo o nell’altro) per curare la nostra solitudine. Nel mentre il passato si affaccia, ti ricordi di noi, avevi una famiglia. E a quel punto è troppo tardi per tornare indietro a fare ciò che non si vuole.
La poesia di Wenders non è per tutti, ma è sostanziale nel suo incendere: un incedere che in certi momenti cattura e in altri sfianca, a dirla tutta, e fa sorgere vaghi dubbi su dove la storia stia andando a parare. Poco dopo capisci che è un viaggio da prendere per quello che è, un po’ come dovrebbe essere la nostra vita (forse), e lì cogli il senso. In quel modo di vedere le cose e di viverle scopri un mondo sostanziale, realistico, tutt’altro che idealizzato o stucchevole. E poi assisti a quella che sembra una citazione del finale de Il giorno del venerdì santo, in cui Koji Yakusho (come Bob Hoskins catturato dai terroristi) esibisce varie mimiche facciali senza dire nulla, esplicitando le emozioni che evocano le varie fasi delle sue giornate: felicità, malinconia, disperazione, gioia, senso di colpa. Non che sia un chiacchierone, del resto: è un personaggio tendenzialmente solitario, con poche frequentazioni e una profondità interiore tutta da scoprire.
Non sappiamo nulla di lui, se non per le rapide pennellate della regia – che ci raccontano che non è troppo loquace, che ama la fotografia e la musica di Lou Reed e Van Morrison, che probabilmente ha lasciato la propria famiglia e il proprio precedente lavoro per fare tutt’altro. Per gran parte del tempo, del resto, non fa nulla di eccezionale, un po’ come avviene per gran parte di certe giornate che trascorriamo immersi tra routine di ogni genere e lavori che non amiamo del tutto. Ma sembra apparentemente soddisfatto, felice (in definitiva) del proprio essere quello che si è, che è pure ciò che social e narcisismo attuali sembrano quasi impedirci di godere.
Perfect days soundtrack – Colonna sonora
Ingegnere per passione, consulente per necessità; ho creato Lipercubo.it. – Mastodon