Terrore dallo spazio profondo porta gli ultracorpi a San Francisco

Aiuto! Arrivano! Arrivano! Arrivano! Ascoltatemi! Arrivano! Arrivano! Aiutatemi! Ascoltatemi! […] Poi toccherà a voi! Vi prego! Anche voi siete in pericolo! Vi prego, ascoltatemi! È una cosa terribile! Vi prego! Toccherà anche a voi! Sono già qui! Aiuto! Aiuto! Anche a voi! Arrivano! Arrivano!

Jeffrey non è Jeffrey. La frase iconica di Terrore dallo spazio profondo è probabilmente questa: un film del 1978 diretto da Philip Kaufman, remake de L’invasione degli ultracorpi, con cui condivide la trama di fondo ma la realizza in forma di horror più moderno. Siamo alla fine degli anni settanta, e si subodorano elementi che saranno tipici di tutta una sfilza di film di genere: ambientazione nelle grandi città americane, intrighi insospettabili e strani traffici, piccole vendette urbane, relazioni clandestine e semiclandestine e l’immancabile perturbante a sconvolgere la quotidianità.

A questa sfilza di elementi classici finisce per aggiungersi il tema del misconoscimento, dello straniamento di un’umanità che non si riconosce più, la quale ribalta, inesorabilmente, l’identificazione e l’empatia con l’Altro. Jeffrey non è Jeffrey, suggerisce più volte Elizabeth, ma anche nella lavanderia cinese uno dei proprietari afferma la stessa cosa della propria moglie. Per esteso, tutto sembra normale ma non lo è, ma non fai in tempo ad accorgerti di nulla perchè, nel frattempo, il contagio delle forme aliene degli ultracorpi arriva a colpire anche te.

Come nell’originale, è il sonno il momento perfetto per contagiarti perchè gli alieni sostituiscano i propri corpi con quelli umani, eliminando fisicamente quelli originali (cosa solo accennata e intuibile dalla versione anni cinquanta dello stesso film). Una delle tante tagline dell’opera, del resto, recitava ironicamente Get some sleep, fatti una dormita.

Questo naturalmente si presta ad interpretazioni di vario ordine e grado: il sonno è quello della società moderna, atrofizzata, che presto diventerà un mondo impazzito popolato di indistinguibili ultracorpi, cerebralmente morti in nome di una grottesca apatìa dai tratti mistici. Nessun dubbio su quanto risulta essere prototipale un film del genere,  nel rappresentare con un certo pathos post moderno (e sicuramente  meno romanticismo dell’originale da cui è tratto) una umanità insonne (perchè se si addormenta, la sua personalità sarà annullata) e interiormente distrutta, esitante nell’amare ed empatizzare col il prossimo, terrorizzata dall’immagine nello specchio, tanto che ogni ultracorpo diventa per ognuno un villain – un gemello cattivo o doppelgänger – con cui dover combattere in una lotta darwiniana per la sopravvivenza.

Tornerete a nascere in un mondo imperturbato, libero dall’angoscia, dall’odio e dalla paura: suggerisce  seraficamente lo psichiatra in uno dei momenti più intesi del film. Così quasi ci convinciamo che gli alieni non odiano gli uomini, quantomeno non vorrebbero dare questa impressione: l’unione tra alieni e uomini viene vista come un passo evolutivo inevitabile, frutto di un mondo in agonia, riferito al pianeta Terra come a quello da cui provengono gli alieni. Ma in realtà è solo opportunismo e, visto oggi, tanto si potrebbe ragionare su come una mentalità del genere sia stata bellamente applicata sul piano sociale, politico e culturale da parte delle classi dominanti.

Gli ultracorpi sono, per inciso, abbastanza simili agli alieni di Essi vivono di John Carpenter, irriconoscibili dall’esterno e organizzati come una vera e propria società segreta, impegnata ad attuare il complotto più diabolico di sempre: sostituire integralmente la razza umana con alieni, mimetizzandosi dentro dei fiori dall’aspetto gradevole ed entrando in azione al momento più adatto. Una narrazione che ha ispirato, peraltro, varie ipotesi di complotto in voga fino ad oggi (quelle sui rettiliani e quelle sugli UFO già presenti sulla terra all’insaputa dei più).

Per quanto il film sia archetipico almeno quanto la pellicola originale di Don Siegel, e tra i due film esista una corpulenta aneddotica (Don Siegel vi appare come tassista, mentre il protagonista del primo film, Kevin McCarthy, interpreta in un ulteriore cameo l’uomo in preda ad una crisi isterica, che urla preannunciando l’arrivo degli ultracorpi) bisogna riconoscere che questo lavoro di Kaufman non gode probabilmente del dono della sintesi, e tende a farsi apprezzare più nella seconda parte che nella prima. Se il capolavoro di Don Siegel, infatti, era totalmente perfetto nella cristallizzazione degli istanti e nel sequenziamento della trama, praticamente priva di tempi morti e di orpelli narrativi inutili, quello di Kaufman tende un po’ a parlarsi addosso, se possiamo scrivere così, è più ricco di lungaggini e di sotto-storie non sempre essenziali, mentre insiste parecchio sulla incomunicabilità e sull’apatia tra esseri umani e in molti casi sembra davvero interminabile.

In compenso l’elemento horror della storia è molto più spiccato, è sempre vivido quanto essenziale, tanto da poter parlare di horror universalistico, assoluto: nelle prime sequenze vediamo forme biologiche extraterrestri che evolvono fino ad arrivare sulla Terra, mentre gli ultracorpi risultanti risultano molto più organici (o realistici) di quanto non fossero nella versione originale. Gli ultracorpi ben formati sono, peraltro, indimenticabili: sguardo vitreo e inespressivo, spaventosi nel loro incedere in massa qualora rilevino qualche essere umano non ancora trasformato, dotati di una spaventosa e parallattica ambiguità di fondo nello svelare la propria vera natura, abilmente mascherata per tutto il film – tanto che ci si chiede, a più riprese, se i personaggi che vediamo siano umani o siano, nel frattempo, divenuti ultracorpi.

Al tempo stesso, Terrore dallo spazio profondo è un vero e proprio remake, nel senso più artistico del termine: la regia ha badato bene a non replicare passivamente il film di Don Siegel, arricchendo la storia di dettagli e approfondimenti di vario tipo, con qualche piccola perla (su tutte, l’ultracorpo che ha sfuttato un cane [sic] per insediarsi sul pianeta). La trama è sostanzialmente identica a quella dell’originale, per quanto sia molto più shockante e nichilista dell’originale anche nelle conclusioni (il finale di Terrore dallo spazio profondo è tra i più iconici mai girati, e il silenzio che segue i titoli di coda mette ancora più i brividi).

A livello di personaggi, il medico è diventato un ufficiale sanitario, compare la figura di un santone-psichiatra a sottolineare il lato della trama legato alla nevrosi e molti altri personaggi sono stati inseriti ex novo, a sottolineare l’universalità, ancora una volta, del contagio alieno. In questo caso la presenza dei body snatchers (traduzione letterale: “predatori di cadaveri”) possiede una valenza sociologica, senza troppi dubbi, che qui eredita molto del mood dai classici film del terrore basati sulla disumanizzazione. Potremmo dire che, in un certo senso, La notte dei morti viventi di Romero (sono cose diverse, ovviamente, ma è impossibile non pensare ai morti viventi nel vedere le incursioni di ultracorpi) sta a L’invasione degli ultracorpi quasi come Zombi sta a questo lavoro, il tutto senza timore di scrivere eresìe e fermo restando quanto premesso all’inizio (le lungaggini non mancano, a volte distraggono e si ha l’impressione che un film di quasi due ore sia forse troppo lungo, per quello che c’è in ballo).

Le musiche oniriche e psichedeliche di Denny Zeitlin, pianista e compositore jazz americano, sono anche l’unica colonna sonora che ha composto nella propria carriera.

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