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Rapporto insondabile: analisi del perturbante freudiano nel cinema dell’orrore

«Il perturbante è quella sorta di spaventoso che risale a quanto ci è noto da lungo tempo, a ciò che ci è familiare.» (Sigmund Freud, Il perturbante, 1919)

Quello di cui parla Freud in quel citatissimo (e relativamente agevole da leggere) saggio del 1919 riguarda il rimosso psichico e le sue potenzialità, ovvero: il meccanismo inconscio con cui un soggetto allontana pensieri ed idee intollerabili dalla propria mente, al fine di evitare sentimenti di vergogna. Il tutto viene simboleggiato da Freud attraverso il neologismo noto come unheimlich, tradotto in italiano il più delle volte come (il) perturbante.

Parlando di perturbante facciamo riferimento al suggestivo vocabolo evocato da Freud (e, prima di lui, dallo psichiatra Ernst Jentsch) all’interno della traduzione proposta dall’edizione Bollati Boringhieri de L’Io, L’Es e altri scritti.  Si tratta della suggestiva parola tedesca unheimlich: un termine molto ambivalente, per cui non esiste traduzione letterale esatta in italiano e su cui riproporremo un piccolo approfondimento linguistico.

Cosa indica il perturbante (unheimlich)?

… spesso e volentieri ci troviamo esposti ad un effetto perturbante quando il confine tra fantasia e realtà si fa labile, quando appare realmente ai nostri occhi qualcosa che fino a quel momento avevamo considerato fantastico, quando un simbolo assume pienamente la funzione e il significato di ciò che è simboleggiato. (S. Freud, 1919)

Freud riferisce specificamente un aspetto del Perturbante derivando dall’etimologia tedesca: proponendo un confronto tra l’aggettivo unheimlich (perturbante) e il termine da cui deriva, heimlich (letteralmente: nascosto, nascosto, in segreto), lega in qualche modo il concetto all’idea di tabù sociale. In altri termini, ciò che è nascosto alla vista per vergogna o inibizione produce l’effetto collaterale di sembrare minaccioso, pericoloso, e questo vale in misura potenziata se si tratta di un oggetto nascosto di natura sessuale.

A questo punto il Perturbante diventa ciò che inconsciamente ci ricorda l’Es, ovvero uno dei tanti impulsi proibiti e repressi, che il Super Io si occupa di minacciare e reprimere. In definitiva, gli oggetti e gli individui su cui proiettiamo i nostri impulsi repressi diventano una minaccia, come i mostri della tradizione popolare, fino a trasformarsi in capri espiatori che incolpiamo per ogni sorta di calamità che percepiamo.

Senza provare a reinventare la ruota, vale la pena richiamare i concetti cardine evocati dall’analisi proposta da Freud nel 1919:

  • heimlich deriva da heim (casa);
  • in seconda istanza unheimlich preleva semanticamente qualcosa da heimisch, ovvero nativo, patrio, abituale o familiare;
  • unheimlich a questo punto diventa il perturbante, ciò che secondo Freud è una sorta di spaventoso, che risale a quanto ci è noto da lungo tempo, a ciò che ci è familiare“.
  • in varie lingue (ad eccezione dell’italiano, curiosamente) esistono termini che traducono unheimlich in termini di sospectus (latino); uncomfortable (spiacevole), uneasy (ansioso), dismal (tetro), haunted (infestato o perseguitato), repulsive (ripugnante: tutti aggettivi inglesi che hanno un qualcosa di horror); lugubre (francese, per cui sembra si essere al cospetto del new horror francese sostenuto da registi come Laugier); suspectoso (spagnolo); fino ad arrivare all’arabo e all’ebraico che, per quanto scrivo il neurologo e psicoanalista austriaco, associano il termine a qualcosa di genericamente demoniaco.

In termini cinematografici, ricalcando tale genealogia, avremo che:

  • heimlich può figurare la tranquillità-base da cui parte quasi ogni thriller o horror: una famiglia serena, un uomo realizzato, una donna felice;
  • la casa è anche la serenità labile e passeggera che caratterizza tantissimi horror, spesso a cominciare dal titolo: La casa, La casa nera, La casa dei 1000 corpi, La casa dalle finestre che ridono;
  • unheimlich è il perturbante freudiano, ciò che sconvolge le sorti di quella ordinarietà: da un lato una sorta di orrore archetipico, primordiale, impossibile da razionalizzare, sepolto nell’inconscio. Dall’altro uno scossone emotivo e imprevedibile, che non rinnega la totalità della primordiale heimlich, anzi – spesso finisce per conviverci a più riprese. In un thriller o horror, per inciso, avremo che qualche membro della famiglia impazzisce, l’uomo si vede crollare il mondo adosso, la donna sostiene un martirio ineluttabile. E poi: un prete era in realtà una donna killer, i ragazzi in realtà non si salveranno dai loro aguzzini e via dicendo.

Esempi di perturbanza nell’horror

Gli esempi di perturbante proposti dal padre della psicoanalisi sono numerosi e, in modo quasi del tutto involontario, molti afferiscono al mood generale dell’horror:

  • la superstizione in generale, su cui fin troppi horror sovrannaturali hanno fatto la loro fortuna (The Omen);
  • i demoni, considerati dei dopo la caduta della religione (Lamberto Bava docet);
  • la paura dei morti e del loro ritorno, tema ovviamente romeriano e legato all’antropologia come al rimosso psicologico dell’infanzia, sviscerato da molteplici registi e che forse trova la sua sublimazione nel capolavoro La morte dietro la porta;
  • le bambole che prendono vita, paura non semplicemente irrazionale ma che deriva dalla concretizzazione orrorifica dei giochi d’infanzia (esempio classico: La bambola assassina);
  • il motivo del ritorno non intenzionale nel medesimo luogo, esemplificato da Freud stesso che si perde in una cittadina italiana per tornare sempre allo stesso punto fino a provare spaesamento o perturbanza; una sequenza della tentata fuga dell’assicuratore dal villaggio maledetto è esattamente l’espressione di questa immagine ne Il seme della follia;
  • l’eterno ritorno dell’uguale, ovvero la ripetizione ossessiva di visi, tratti somatici, destini, imprese delittuose, da Venerdì 13 ai film sui serial killer di ogni ordine e grado;
  • il tema letterario dei sosia e dello specchio (sulla falsariga di quanto scritto da Otto Rank), visti non solo come copie del personaggio ma interpretabili come sua volontà di sopravvivere alla morte, essere uno spirito autocritico e severo, simboleggiare ciò che viene comunemente chiamato Super-Io, la coscienza morale, oltre alla presenza fantasmatica della non-realizzazione personale (Inseparabili di David Cronenberg, che a Freud, Jung e Sperlein ha dedicato il mai abbastanza citato A dangerous method; è quantomeno suggestivo osservare come la telepatia tra gemelli sia un tema citato nel saggio da Freud, e che lo stesso sia stato ripreso anche in Scanners).

Cosa si intende per “perturbante” in psicoanalisi

Heim, heim-lich, un-heimlich: questo è quanto suggerisce la linguistica dizionario alla mano. I due termini heimlich e unheimlich si potrebbero comprimere nell’espressione regolare (un)heimlich: e non si tratta di una pedanteria o vezzo sintattico, ma di una scelta che li colloca in una realtà di legame reciproco. Nel saggio in questione, del resto, Freud definisce il tipo di legame che esiste tra i due termini, antitetici solo in apparenza. Le parole heimlich e un-heimlich sono, infatti, legate da un’insolita comunanza, non sono in contrapposizione – come potrebbero essere, ad esempio, un termine ed il suo contrario – e risultano legati da un divenire imprecisabile, che permette di trasmutare un significato nel suo “opposto” apparente. Ciò che è unheimlich può diventare inconsciamente heimlich o viceversa: basta cambiare prospettiva o punto di osservazione, sfruttando un effetto analogo simile a quello prodotto dalla stampa lenticolare (le figure che sembrano animarsi o cambiare in base all’angolo di inclinazione).

Ma allora come definiamo il pertubante, in definitiva? Freud ricorre ad approssimazioni sempre più precise nella sua trattazione, consolidando la definizione monolitica che aveva dato di unheimlich – qualche anno prima di lui – lo psichiatra tedesco Ernst Anton Jentsch. Dal suo punto di vista è l’incertezza intellettuale a determinare la perturbanza, quantomeno nel senso specificato.

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Se fosse come suggerisce, ne dedurremmo che si tratta della medesima esitazione che proviamo per le forme dubbie o ambigue, per i comportamenti ambivalenti del prossimo, per le nuvole che evocano una forma mostruosa o mistica (pareidolìa), per il burattino poggiato sull’armadio che abbiamo trovato in una posizione diversa da come lo ricordavamo, per il pupazzo dalla forma banalotta che sembra essersi spostato da solo, in nostra assenza.

Il rapporto con l’uomo di sabbia

Qualcosa in cui non ci si raccapezza“, scrive Freud, qualcosa che resta nel dubbio e che è in grado di oscillare tra due estremi, tra di loro incompatibili: vita o morte, animato o inanimato. Senza trovare una risposta netta che possa soddisfarci e che, secondo Freud, è riconducibile tipicamente a traumi infantili sepolti e/o all’angoscia di castrazione: un qualcosa che nel saggio in questione viene raffigurato dall’uomo di sabbia, Der Sandmann, la celebre storia dell’orrore di Ernst Theodor Amadeus Hoffmann del 1815 a cui fa riferimento, per inciso, Enter Sandman dei Metallica.

Senza scendere nei dettagli di una storia che, per inciso, vale la pena reperire nella versione molto fedele al racconto girata da Giulio Questi per la serie TV I giochi del diavolo (disponibile in streaming gratuito su RaiPlay), vale la pena ricordare che la maggioranza delle situazioni rappresentate nella storia sono archetipiche, già viste o parte del brodo primordiale di qualsiasi horror dai tempi del dottor Caligari (inclusa la figura di un automa di cui si dubita della presunta umanità, tema tipico di Blade Runner).

Parallasse, Zizek e Schelling

L’oscillazione di punti di vista potrebbe aver evocato immagini familiari a chi possieda familiarità con certi saggi: per quello che vale, Slavoj Zizek potrebbe sfruttare in merito il termine “parallasse“, che fa riferimento ad un modo addirittura geometrico per effettuare questa operazione, ovvero (cito testualmente):

il dislocamento apparente di un oggetto (lo spostamento della sua posizione rispetto allo sfondo) causato da un cambiamento nella posizione di osservazione che determina un nuovo asse visivo.

Ed è quello che facciamo nel provare a vedere le cose da un punto di vista diverso, con il rischio di precipitare nel baratro dell’incertezza ideologica come, di contro, di trovare nuove certezze e corroborare la nostra fede nella quotidianità.

Secondo il filosofo tedesco Schelling, peraltro,

è detto unheimlich tutto ciò che potrebbe restare […] segreto, nascosto, e che è invece affiorato

il che evidenzia una curiosa dualità di significato. Una dualità che non è da intendersi come contrapposizione bensì come convivenza di estremi (eventualmente) incompatibili, sulla base di una dinamica che potrebbe far cambiare senso al termine strada facendo. Il che è una definizione interessante, che tornerà ad essere evocata in seguito. Se heimlich appartiene o afferisce alla “casa”, a questo punto, un-heimlich non dovrebbe appartenere alla stessa e causare straniamento anche solo per questo motivo – fatto salva l’eccezione citata per cui suscita paura, sconforto, estraneità, disorientamento; se heimlich afferisce a ciò che si accosta in modo benevolo o fiducioso agli uomini (ad esempio un cane mansueto e fedele) unheimlich rappresenta, di contro, gli animali impazziti di Pet cemetery.

I personaggi che impazziscono – brutale semplificazione dietro la quale, in effetti, vi sarebbero da sviscerare infiniti saggi psiconalitici – fanno il pari, nel cinema horror, con:

  • gli oggetti che si animano (la bambola assassina, per esempio);
  • le cose che non dovrebbero essere in un posto eppure ci sono (gli scenari surreali in cui Freddy Krueger tortura ed uccide le proprie vittime);
  • gli insospettabili che emergono dal retro di un tavolo, svelandosi inaspettatamanete come assassini (si pensi alla rivelazione del killer “nano” nell’argentiano Non ho sonno, o al finale shockante di un film come Francesca di Luciano Onetti).

Gutzkow: perturbante come potenziale di mutazione

Ma più di tutte attrae, per il nostro saggio sul tema, l’uso del termine perturbante che propone Karl Ferdinand Gutzkow, scrittore tedesco di metà Ottocento il quale, racconta Freud, descrive mediante un suo personaggio la heimlich come un qualcosa che “mi desta la stessa sensazione che provo di fronte ad una fonte interrata o ad uno stagno prosciugato. Non si può passarvi accanto senza avere sempre l’impressione che potrebbe tornare a comparire l’acqua”.

Anche qui un’immagine che possiede echi cinematografici potenti, legati alla perdita dell’innocenza e all’irreversibilità del tempo che a volte ci fa, incautamente, diventare adulti prima del tempo: basti pensare a La fontana della vergine di Ingrid Bergman, o alla sua celebre rielaborazione craveniana. In seguito, nell’opera di Gutzkow, un altro eprsonaggio osserva: “Noi la chiamiamo unheimlich, lei heimlich”, a sottolineare l’ambivalenza oscillatoria e non deterministica del termine (dato che potrebbe “svuotarsi” o “riempirsi” indifferentemente, restando in ambito di allegorie idrauliche), e conclude che in entrambi i casi è un “qualcosa di nascosto che non ispira fiducia“.

Qualcosa di nascosto che non ispira fiducia: Profondo rosso e la scena del pupazzo meccanico

L’analisi freudiana prosegue con ulteriori approfondimenti e specifiche ma, per quello che ci interessa, decidiamo di fermarci su quest’ultimo punto. Cosa racconta il cinema horror e thriller in termini di (un)heimlich? Molto, tanto che molte linee narrative di film più o meno celebri puntano all’effetto shock proprio facendo leva sul perturbante o sulla sua ambivalenza innata, avendo l’accortezza.

Il racconto L’uomo di sabbia di E.T.A. Hoffmann, citato da Freud nello stesso saggio, dalla descrizione della trama sembra ricalcare un oscuro precursore di qualsiasi horror moderno, tra bambole che prendono vita, traumi infantili rimossi e riemersi, l’uomo della sabbia o del sonno che vorrebbe strappare gli occhi ai bambini e così via. L’archetipo, quindi, non sembra essere solo narrativo, ma possiede implicazioni legate alla psicoanalisi e al mondo dell’inconscio.

Restiamo fedeli a questa suggestiva definizione: qualcosa di nascosto che non ispira fiducia, per quanto non fu esattamente quella che convinse appieno Freud, per provare a far riemergere dalla memoria cinematografica una delle suggestioni degne di nota che hanno fatto la storia del cinema del terrore.

Il pupazzo meccanico che emerge dal nulla e prova ad aggredire uno dei protagonisti è forse uno degli esempi più cristallini di perturbante nel senso dettato da Jentsch: figure di cera, dagli automi e dai pupazzi costruiti comunque ingegnosamente, dall’aria ordinaria che diventano presagio di morte per il personaggio di Giordani. Si passa senza preavviso da una situazione di tensione ad un’esplosione di violenza, ed è possibile ravvisare una sorta di estrema sintesi di (un)heimlich nel senso sopra discusso.

Il vivido realismo della sequenza viene peraltro cementato da una insolta scelta registica: proporre una violenza tangibile, non astratta o da thriller classico: non i colpi di pistola bensì il dolore fisico, che chiunque potrebbe aver provato – i denti spaccati sullo spigolo del camino. È il trionfo dell’orrore,  la rivelazione di una paura primordiale (un pupazzo innocuo che mi possa aggredire senza motivo), anche qui, inconscia (da bambini abbiamo giocato quasi tutti, con i pupazzi e i peluche), per una verità sull’identità del killer che si rivelerà mediante uno specchio – non a caso, forse, elemento psicoanalitico per eccellenza.

Per ulteriori rimandi la mia analisi di Profondo rosso dovrebbe svelare ulteriori punti di interesse.

 Foto di Gerd Altmann da Pixabay

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