The VVitch A New-England Folktale: tra tradizioni, folklore e terrore con R. Eggers

1630: una famiglia del New England viene scomunicata e cacciata dalla propria comunità, andando a vivere nelle prossimità di un bosco.

In breve. Un saggio dell’horror iconografico, opprimente e maestoso nella rappresentazione di una (possibile?) realtà dell’epoca. In pochi rimarranno indifferenti: da non perdere.

Girato in soli 25 giorni, ed in larga prevalenza sfruttando la luce naturale (come evidenziato dal direttore della fotografia Jarin Blaschke), The Witch (o secondo la scrittura originale The VVitch, considerato il fatto che la W non fosse troppo comune all’epoca dei fatti raccontati) è girato dell’esordiente Eggers – che firma anche soggetto e sceneggiatura – ed è recitato nell’inglese arcaico del New England.

The Witch colpisce per il suo aspetto realistico e per la sua forma spiazzante, a cominciare da un’atmosfera contaminata dal radicalismo cattolico e dal bigottismo dei protagonisti, che si troveranno ad avere a che fare con un Male dalle caratteristiche singolari. Prima di tutto Eggers rappresenta un maligno tangibile, reale, vivido, tanto che non sembra esistere una spiegazione razionale dei fatti raccontati – o se esiste, è soltanto parziale. In secondo luogo, poi, il Male è sempre relativo, ed è in grado di contaminare la mente di chiunque mediante suggestioni ed ammiccamenti di varia natura, da leggersi e saper cogliere durante la storia (il raccolto che va male, la maturità e consapevolezza sessuale degli adolescenti, la ribellione alla società patriarcale, la mancanza di razionalismo).

L’ambientazione è quella della società contadina dell’epoca, semplice quanto superstiziosa, poco prima dell’ondata di isteria stregonesca di Salem; Eggers ci catapulta nella vita di ogni giorno di una famiglia, il cui padre è profondamente cattolico quanto antisociale. Volutamente in bilico tra sovrannaturale e razionale, The VVitch si ispira apertamente a storie di folklore e credenze dell’epoca, risultando un intreccio mistico ed intrigante derivato da un’analisi di giornali, diari e registri di corte. Pur trattandosi di un film classico, del resto, è stato girato come fosse una cronaca realistica di quei giorni, senza lesinare in suggestioni da mockumentary come Road to L. oppure (in misura ancora maggiore) Oltre il guado. Ovviamente lo stile del film rimane improntato a quello del cinema tradizionale, quello in grado di raccontare storie in modo accattivante e senza chiedersi troppo, per la verità, se la vicenda sia reale o mitologica: in fondo, fin dal titolo, parliamo di folklore (A New-England Folktale).

L’originalità di The VVitch si conferma anche da un dettaglio come l’aspect ratio delle immagini, fissato a 1.66:1 – decisamente inusuale oggi e tipico dei film anni ’50, noto anche come VistaVision. Serve a conferire una certa “antichità” alle immagini mostrate, a cominciare dall’accostamento straniante (e privo di una motivazione esplicita, se non quella – consueta – del senso di colpa) tra una famiglia contadina e gli elementi aggressivi e oscuri della Natura e delle streghe.

Non viene spiegato perchè il maligno dovrebbe contaminarla, ma siamo immediatamente messi di fronte alla realtà della scomparsa del piccolo Samuel (rapito dalla strega, almeno per quello che suggeriscono le immagini); da qui si dipartono le diffidenze, i segreti, le antipatie e le attrazioni nascoste del gruppo familiare. In questo contesto finisce per giocare un ruolo fondamentale, sia come elemento simbolico che come parte della trama, il caprone nero Black Philip (considerato un animale associato a Satana ed alla stregoneria), che vive nella fattoria come se nulla fosse, e che finirà per far avvertire il proprio influsso in modo del tutto insospettabile.

The Witch scorre sullo schermo presentando svariati elementi oscuri, simbolici, molti dei quali ricorrono in più occasioni e possono essere colti solo contestualizzando stile e ambientazione. Un “horror storico” finisce certamente per risultare una scelta poco usuale per il genere, ma il film sa toccare le corde giuste e riesce a rendere le immagini in modo moderno, accattivante, senza mai eccedere  nella rappresentazione dell’orrido. Troviamo molti elementi associabili a superstizioni e credenze del periodo, tra cui la presenza ossessiva e ricorrente della lepre – dalle nostre parti innocuo e gradevole, nel New England dell’epoca considerato sia una sorta di animale magico (ad esempio in grado di rubare il latte), che la possibile incarnazione di una strega. In tal senso si spiega la paura dei personaggi verso l’animale, ma anche l’incapacità dei bambini posseduti nel recitare per intero una preghiera: durante la caccia alle streghe, infatti, era diffusa la convinzione che non sarebbero riuscite a farlo.

L’aspetto più concreto del film – e probabilmente più interessante- si registra al netto dell’atmosfera creata, che è quella delle leggende popolari tramandate oralmente (folktale, per l’appunto), in grado di coinvolgere lo spettatore dalla prima all’ultima sequenza. Non mancano momenti visionari di grande rilievo, come il sabba finale e l’incontro tra il ragazzino e la strega da giovane (Sarah Stephens): una presenza fugace, quest’ultima, quanto suggestiva per l’incedere della storia.

Quello che fa realmente paura, in fondo, è l’isolamento della famiglia dal resto della comunità, solo apparentemente in grado di vivere fuori dalla società organizzata; e lo si nota dall’insistere su monologhi deliranti e preghiere sconnesse, legate all’ingestione involontaria di allucinogeni nell’alimentazione dei contadini dell’epoca (l’ergotismo o intossicazione da Claviceps purpurea o ergot fu molto comune, per inciso, anche all’epoca della caccia alle streghe di Salem).

In quest’ottica, peraltro, lo sguardo registico rimane sostanzialmente neutro, e non vi è alcun intento moralizzatore, come (anche involontariamente) accadrebbe in altre pellicole del genere, contrapponendo il Bene al Male: piuttosto – e questo è un elemento di innovazione considerevole, a mio avviso – la stregoneria fuoriesce quale forza affascinante, misteriosa, certo crudele e vendicativa ma anche liberatoria (quest’ultimo aggettivo sembrerebbe pienamente giustificato dal finale sulfureo). Non è un caso, ad esempio, che The Satanic Temple (un gruppo internazionale noteista con sede a Salem) abbia espresso un sostanziale elogio al film, organizzandone diverse proiezioni ed apprezzando lo spirito con cui satanismo e stregoneria vengono raccontati (secondo il portavoce Jex Blackmore, “an impressive presentation of Satanic insight that will inform contemporary discussion of religious experience.“).

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