1922: un proprietario terriero americano medita di assassinare la consorte, decisa a vendere la loro proprietà contro la sua volontà e cercando, nel contempo, di coinvolgere il figlio adolescente. Sarà solo l’inizio di un incubo senza fine…
In breve. Thriller a fortissime macchie gore sopra le righe, ben girato ed altrettanto ben recitato, che smentisce definitivamente il luogo comune sulla presunta “non filmabilità” di Stephen King: basta l’attitudine giusta per farlo. Senza scomodare paragoni impropri con Kubrick o De Palma, uno dei migliori horror recenti mai visti.
Il regista Zak Hilditch (Transmission, 12 ore alla fine) dirige questo film per la piattaforma Netflix, e lo fa con grande consapevolezza di tecnica e mezzi. Nel farlo, soprattutto, mostra di saper spaventare il pubblico in modo autentico quanto poco “televisivo”, a cominciare da piccoli dettagli ricorrenti autenticamente disgustosi (i topi che ritornano un po’ ovunque, quale figurazione ossessiva del senso di colpa) a finire su scelte visive sopra le righe e decisamente poco family-friendly: morte e cadavere di adolescenti non sono certo all’ordine del giorno, ma qui si vedono esplicitamente – e rimandano a reminiscenze quasi fulciane, nella loro spontanea verosimiglianza. E tanto per chiudere velocemente un giro di citazioni e riferimenti che rischia di diventare colossale, questo 1922 si richiama ai classici dell’horror di Edgar Allan Poe (i topi che assediano il protagonista de Il pozzo e il pendolo) quanto, forse ancora più marcatamente, di H. P. Lovecraft (impossibile non pensare a I ratti nei muri o I sogni nella casa stregata). La cosa davvero considerevole di questo film, del resto, è che non si tratta di semplici citazioni quanto di basi ispirative per costruire un immaginario inedito e senza speranza, sorprendente nella sua narrazione – ma questo, va detto, soprattutto per merito della storia di King, forse una delle migliori che abbia mai scritto almeno di recente (per la cronaca si trova in Notte buia, niente stelle con la celebre traduzione italiana di Wu Ming I).
Di fatto, 1922 è un horror semplice nella sua struttura quanto profondamente intrigante nell’intreccio, rivolto al grande pubblico ma del tutto consapevole del proprio ruolo: un film che spaventa, genera ribrezzo e vive sull’orlo di una tensione costante senza mai, cosa fondamentale, perdere il proprio carattere di verosimiglianza. Una sorta di “gotico all’americana”, che mostra una (solo apparentemente) tranquilla famiglia, che finirà vittima della mentalità gretta e proprietaria del protagonista (un superlativo Thomas Jane). Se il fulcro della narrazione sono i cento ettari di terreno con la casa a cui Wilfred James è morbosamente legato, è da qui che riescono a dipanarsi due trame parallele, una incentrata sul padre e l’altra sulla figura del figlio. La maestria narrativa di King ci consegna dei ritratti talmente vividi da sembrare veri, e la regia di Hilditch fa il resto consegnandoci un film dai toni oscuri, lugubri quanto realistici. 1922 non sarebbe completo se non vi comparisse l’abusata e bucolica mitologia della vita di campagna, fatta di lavoro manuale, vita all’aria aperta ed amori spontanei, qui letteralmente sovvertiti dal senso di grettezza, dalla chiusura del protagonista alla modernità e soprattutto al suo condizionare, con la propria scelta, l’intero destino della propria famiglia nel modo peggiore possibile.
Non mancano, peraltro, riferimento a lavori ormai classici dell’universo kinghiano, tra cui è impossibile non pensare alla sinistra aura che aleggia sulla famiglia di Shining (anche qui abbiamo un padre isolato e problematico, una famiglia spaccata che cerca di restare unita tra ipocrisie e calcoli egoistici, la neve che complica la situazione, una componente allucinatoria piena di non-morti carichi di simbolismo e, soprattutto, mai banali nelle loro apparizioni). Certo non siamo ai livelli dei pochi film d’autore tratti da King, e che ormai tutti dovrebbero conoscere a memoria: ma certamente questo 1922 spicca nella sua orgogliosa consapevolezza di aver trovato spazio all’orrore, ancora una volta.
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