Climax da LSD: Gaspar Noé ti trascina nel baratro

Un gruppo di ballerini si ritrova in una scuola abbandonata per festeggiare la partenza in tour: un party destinato a sfuggire al controllo.

In breve. Una storia urbana dalla fotografia studiatissima ed articolata, interpretata da protagonisti dal comportamento alterato dall’uso di droghe. Che sia o meno una metafora della Francia di oggi, in fondo, poco importa: un autentico capolavoro del cinema di Noè.

1943: Albert Hofmann, all’epoca dottorando in chimica presso l’Università di Zurigo, avverte un forte malessere ed è costretto a rientrare a casa. Avverte vertigini ed irrequietezza, e – solo in parte consapevole di essersi intossicato durante la manipolazione di acido tartarico – passa le successive due ore in stato delirante e allucinatorio.

Dalle sue testimonianze dirette, emergono visioni di figure fantastiche, sensi sovrastimolati, giochi di colore caleidoscopici. In modo del tutto accidentale, Hofmann aveva scoperto il dietilamide-25 dell’acido lisergico noto oggi come LSD. Circa dieci anni dopo, la sostanza venne sperimentata anche a scopo psico-terapeutico, atto a curare e lenire traumi di pazienti molto problematici.

Il mio incubo peggiore? Essere sola, niente e nessuno attorno a me.

Gaspar Noè propone, nel suo Climax, quello che potremmo definire un thriller lisergico anni ’90 (è ambientato nel 1996, e si basa su un fatto realmente accaduto), ispiratissimo (come è possibile notare dalle sequenze di testa) a film come Zombi di George Romero, Possession di Zulawski, Suspiria di Dario Argento, La maman e la putain, Eraserhead di Lynch, Salò di Pasolini, Un chien andalou di Bunuel e vari libri controversi ed antropologicamente pessimisti, tra cui Suicidio modo d’uso (un famoso saggio massacrato dalla censura francese) e L’inconveniente di essere nati del filosofo rumeno Emil Cioran.

Se la dimensione iniziale del film è da horror asfittico e irrazionale (vediamo una ragazza ripresa dall’alto contorcersi, ferita, nella neve), il tono vira inizialmente sul mockumentary: i protagonisti vengono presentati in TV, ripresi in VHS che vorrebbero sembrare reali video-interviste del cast selezionato. Cast che, neanche a dirlo, è composto da veri ballerini non professionisti (l’unica attrice professionista è la Boutella, per inciso), i quali aprono le danze (è proprio il caso di dire) con una spettacolare  ed interminabile coreografia che ci introduce nell’ambiente.

Un gruppo di ballerini francesi, pronti a partire per un tour negli USA, organizza un festino a base a base di sangria. L’atmosfera, inizialmente armoniosa e impeccabile, mostra una impercettibile deviazione dalla norma: attraverso una serie di dialoghi spezzettati intuiamo la reale natura dei protagonisti, le rispettive fantasie erotiche e, in alcuni casi, un vasto assortimento di scheletri nell’armadio. Nel frattempo l’acido lisergico, mescolato alla sangria – non sappiamo bene da chi, e per quale scopo: il gioco dei sospetti, in questo caso, è degno di film come La cosa – finisce per far degenerare la festa, facendo emergere storie di razzismo, intolleranza sociale, invidie e sesso solo in parte (o per nulla) liberatorio. Ecco spiegato, senza troppi fronzoli, il climax del titolo.

Noè tocca i temi della trasgressione, dell’aborto, del sessismo, delle responsabilità individuali e del razzismo (chi ha notato la svastica disegnata col rossetto?), scomodando vari riferimenti sociologici e giocando su un classico topos dell’horror moderno: un gruppo di persone bloccate in un ambiente chiuso, dal quale non possono (o non vogliono) uscire, citando L’angelo sterminatore. Con una differenza fondamentale: la causa del loro permanere è necessità, ed è lo stordimento da incubo dovuto all’assunzione involontaria di droga (un classico da urban legend) che li trattiene e finirà per scatenare il più prevedibile uomo-mangia-uomo. E lo fa con modalità spaventose, molto più di quanto avvenga nei film e negli scritti che lo hanno ispirato, perchè relega la violenza più realistica a deliri lisergici e caleidoscopici, in cui i protagonisti non si rendono più conto di ciò che fanno (de-responsabilizzazione).

Una storia, a ben vedere, che non è horror – ma ne eredita molto le dinamiche, ed è condotta sulla falsariga di film come The Divide, con la differenza che l’isolamento è imposto non da condizioni esterne avverse bensì dal trip lisergico che i protagonisti vivono (peraltro, cosa considerevole, loro malgrado). Poco importa, a questo punto, che la storia vera a cui si ispira il regista (risalente agli anni ’90, e ad un party tra ballerini degenerato per via di LSD) non ebbe per fortuna le conseguenze nefaste che si vedono nel film.

Se poi è scontato, per certi versi, che da ciò prima o poi  emerga ciò che realmente sono quei ragazzi, meno scontati (ed azzeccatissimi) sono i deliranti messaggi sociologici lanciati dal regista all’interno dei titoli del film, in cui prima di tutto si afferma che il film è “orgogliosamente francese”(miratamente, una provocazione) e poi, a seguire, vari messaggi nichilisti e pessimisti sulla natura umana. Spicca, ovviamente, “Life is a collective impossibility” (citazione del filosofo Žižek) mentre la tagline di lancio afferma: “nascita e morte sono due esperienze straordinarie: la vita è un piacere fugace“. Al tempo stesso, non manca un messaggio simbolico alla società francese: la preoccupazione per la bandiera espressa da alcuni personaggi, ad esempio, con ulterior riferimento alla onnipresenza dei crocifissi nelle aule, è chiaramente espressione delle paure cavalcate da una certa politica.

La coreografia gioca inoltre un ruolo fondamentale: se prima è espressione di armonia, coordinazione, eleganza ed è visivamente incredibile (per quanto, per certi tratti, troppo tirata per le lunghe), col tempo diventa sempre più allusiva, esplicita, selvaggia e crudele (Possession ed i suoi deliri psicotici sono un punto di riferimento cruciale). La danza, come nel capolavoro argentiano, possiede una valenza duplice: mostra corpi armoniosi che, al tempo stesso, sono anche espressione di un qualcosa di esoterico, nascosto e quasi trascendentale, al di là del bene e del male, sepolto nella rispettiva psiche di ognuno.

Il piccolo figlio della coreografa, del resto, gioca un ruolo vitale nel terrificante chiaro-scuro di Noè, che si concentra prima su una festicciola innocente e poi su un party allucinato, delirante e a base di violenza e sesso (tanto per sfatare ogni tabù, sono presenti riferimenti anche ad un incesto, cosa che in pochi hanno notato). Un collage psichedelico che, a conti fatti, avrebbe fatto rabbrividire anche il buon Hofmann.

“A volte si desidererebbe essere dei cannibali. Ma non tanto per divorare taluni o talaltri, quanto poi per vomitarli.” (E. Cioran)

Trasgredisco la regola anti-spoiler che mi impongo da sempre sul sito per notare un altro aspetto: all’interno di Climax, come in un horror ben codificato, sono presenti un paio di riferimenti a leggende urbane famose: il “bambino al microonde” (la storia secondo cui una babysitter hippie, in bad trip, finisce per mettere nel forno il bambino che avrebbe dovuto accudire), e la storia secondo cui l’abuso di LSD (per un certo numero di volte) sarebbe stato sfruttato da molti ragazzi per scansare la leva obbligatoria (come ritratto generazionale, in effetti, Noè mostra personaggi a volte sgangerati altre edonisti, che rifuggono da qualsiasi responsabilità). Shockare, per Noè, non è fine a se stesso ma serve a definire la fine di un sogno (probabilmente anche quello peace & love anni ’60, in cui LSD ed altre droghe vennero usate con scarsa consapevolezza). Un qualcosa che sembrerebbe, sulle prime battute, un presupposto classico da college movie leggero americano (gli ingredienti ci sono tutti: party di fine anno, relazioni mordi-e-fuggi, promiscuità, confidenze sessuali) ma che poi, neanche il tempo di simpatizzare per questo o quel personaggio, diventa un incubo sociologico delirante (e almeno in parte realistico).

Un piccolo capolavoro nel suo genere, al netto dei momenti lisergici in cui la camera viene capovolta e rigirata (e che probabilmente non piaceranno a tutti) e di quelli autenticamente violenti (una sequenza, ad esempio, sembra inaspettatamente citare il controverso Snuff 102), per uno dei migliori e più “controllati” film del regista argentino.

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