Recensioni

Raccolta di opere che qualcuno deve aver visto in TV, al cinema o in DVD. Trattiamo soprattutto classici, horror, thriller e cinema di genere 70/80. E non solo. Contiene Easter Egg.

  • The Last Horror Movie: la celebrazione retrò dello snuff da videoteca

    The Last Horror Movie: la celebrazione retrò dello snuff da videoteca

    Un serial killer sfrutta un originale modus operandi per far conoscere i propri delitti: noleggia videocassette di slasher a basso costo e sovrascrive i nastri filmando i propri film snuff. Max Parry è ufficialmente un fotografo di matrimoni…

    In breve. Nel sottogenere found footage e mockumentary The Last Horror Movie spicca non tanto per le qualità visive, che rimangono modeste, quanto per lo spessore che viene fornito al protagonista: un killer feroce, insospettabile e cannibale, che si riprende durante i propri crimini, accompagnato da un timido e sottomesso cameraman.

    Julian Richards scrive e dirige questo film tratto da un’idea considerevole: immaginare che un killer provi ad arrivare al proprio pubblico mediante un video-noleggio. Siamo nel 2003, e le videocassette sono prossime alla scomparsa definitiva: guidato da un certo nostalgismo e da un retrogusto vintage per la regia, Richards dirige un horror compatto, semplice nel suo impianto e di durata ragionevolmente bassa (poco più di un’ora). La costruzione della figura di Max è solidissima quanto spaventosa: parla davanti alla telecamera e si rivolge direttamente al pubblico, ponendo vari dilemmi filosofici e morali sull’opportunità di guardare degli snuff. Nel frattempo vediamo come si svolge la sua vita, tra le visite alla sorella, alla nonna e ai nipotini, tra interviste che realizza per strada (a volte minacciando o aggredendo i passanti). In questo il protagonista è molto sulla falsariga del personaggio principale di Henry – Pioggia di sangue, con la differenza che possiede uno spiccato sarcasmo ed uno humour nero da manuale.

    L’ispirazione principale del film sembra partire dalla serie horror anni ’90 Zio Tibia Picture Show, noto negli USA come Uncle Creepy e dotato anch’esso di un certo humour paradossale nell’introdurre storie di sangue e morte. In questo, a quanto sembrerebbe, Max potrebbe considerarsi una versione realistica di quel personaggio, in grado di sorprendere immediatamente lo spettatore con una cura particolare per i dialoghi e senza disdegnare riferimenti ai classici (Non aprite quella porta, ad esempio, che viene apertamente citato).

    Max, il protagonista, è istrionico e possiede velleità artistiche, ma sembra venire preso poco sul serio dai propri familiari che più volte sembrano invitarlo a “trovarsi un lavoro vero“: per questo, apparentemente, l’uomo sfoga la propria frustrazione ponendosi al di sopra della folla, operando un distinguo fondamentale tra i propri affetti (nipoti, sorella, la propria ex compagna) e l’uomo della strada, perennemente sbeffeggiato, deriso e torturato. Max si pone (anche filosoficamente, mediante discorsi forbiti e – per certi versi – addirittura sensati) al di sopra della massa, che a suo avviso è inebetita da vite monotone: in questo, l’omicidio è il suo modo di uscirne e prenderne le distanze. Durante le proprie efferatezze Max si fa accompagnare da un mite e remissivo cameraman, che lo accompagna durante le proprie giornate – siano essi momenti ordinari che altri decisamente più violenti – e con il quale ha in mente il progetto che stiamo guardando: letteralmente, “an intelligent movie about murder“, senza dubbio un bel sottotitolo per un lavoro del genere.

    The Last Horror Movie alterna senza preavviso, poi, momenti da filmino amatoriale coi parenti a delitti commessi con particolare sadismo ed efferatezza, dei quali molto si intuisce con varie inquadrature da video amatoriale, spesso fuori campo: in questo modo, Max arriva a sbeffeggiare gli stessi spettatori, sottolineando come quello che stanno vedendo non sia un film arthouse e come, soprattutto, in fondo anche loro vogliano vedere più nitidamente quello che succede. Il sogno di Max, in fondo, è quello di guadagnare la “visibilità” del proprio operato in un’ossessione cupa ed istrionica per il delitto, in cui il lato killer della sua personalità bilancia quello dotato di umorismo, empatia e capacità di stare con gli altri. Max non è, in altri termini, un vero e proprio anti-sociale come il succitato Henry, ma vive un odio represso che sfoga periodicamente girando i propri snuff, e che contribuiscono a dotarlo di un certo equilibrio dall’esterno e renderlo perfettamente anonimo, inquietante e insospettabile. Del resto chi mai penserebbe che un fotografo sognatore e stralunato come lui sia un serial killer feroce e, come se non bastasse, anche cannibale?

    La modalità del delitto segue un copione preimpostato: Max killer indossa dei guanti bianchi, si intrufola in casa delle persone, ne filma la vita di ogni giorno e poi le uccide nel modo più feroce (mediante un coltello, per soffocamento oppure con un batticarne), spesso legandole e costringendole a vedere la morte dell’eventuale partner, consapevoli di essere ripresi. Nella vita di ogni giorno, poi, continua a filmare cene di famiglia (di cui una con una carne “speciale”) e matrimoni, sempre accompagnato dall’introverso The Assistant: un anonimo cameraman trovato per strada, che proverà poi a rendere protagonista, a suo modo, del film che sta girando. Grottesco e voyeurismo sono, pertanto gli ingredienti base di questo found footage o mockumentary, di livello medio-alto e superiore alla media del genere come forma e contenuti: quasi a livello di The Poughkeepsie Tapes, che ha dalla sua una qualità fotografica superiore, che qui viene degradata probabilmente per adeguarsi ai tempi ed al formato VHS.

    Oggi un film del genere non si potrebbe più girare: sono finiti i tempi delle videoteche, e l’ultima fabbrica di VHS ha ormai chiuso. Per cui certi paradossi, come il momento in cui Max inizia ad aggredire e torturare il pubblico del suo stesso film che è andato a noleggiarlo, rischiano di passare in modo poco efficace o comprensibile. Al netto di questo, The Last Horror Movie spicca nella sua originalità e vive il suo principale punto di forza nella figura dell’istrionico protagonista.

  • Velluto blu: il noir fuori dalle righe di David Lynch

    Velluto blu: il noir fuori dalle righe di David Lynch

    Velluto blu (Blue Velvet) fu girato nel 1986, da un David Lynch reduce dall’esperienza non esaltante di Dune: una fantascienza atipica che, per inciso, non fu mai considerata tra le sue migliori opere. Il titolo del film, che è tratto da una canzone classica di Bobby Vinton (e viene interpretata dal personaggio della cantante, la “signora in blu“, ovvero Isabella Rosellini), racconta una sorta di noir, immediatamente riconoscibile dal formato e dal ritmo, alla  scoperta di un mondo nascosto nell’apparente ordinarietà di una cittadina di provincia americana. Il velluto blu, per la cronaca, è il tratto distintivo di un feroce criminale (Frank), il quale lo usa per imbavagliare o soffocare le vittime dei suoi soprusi, strappandolo dal vestito di una cantante di cui è invaghito.

    Al di là del celebre dettaglio dell’orecchio mozzato, in effetti, i primi minuti del film non rientrano neanche nel tipico surrealismo lynchiano, che rinuncia alla sua consueta narrazione non lineare e non pone, almeno all’inizio, particolari dettagli disorientanti. Velluto blu è pertanto un unicum lynchiano per vari motivi e scelte stilistiche, e resta probabilmente tra i film più accessibili e lineari del regista, ideale per chi volesse conoscere o approcciare al suo mondo risparmiandosi le divagazioni mistiche e surreali che, di lì a qualche anno, avrebbero caratterizzato tutto il resto della sua cinematografia.

    Jeffrey Beaumont è l’archetipo del giovane curioso (dal gusto voyeur, per quanto apparentemente solo ingenuo) che aleggia nella stragrande maggioranza dei thriller (ad esempio argentiani), con un protagonista che opta per le indagini “fai da te” perchè stregato da una vicenda macabra di fondo di cui viene a conoscenza (il malore del padre ed il ritrovamento dell’orecchio nel giardino) e – di riflesso – si lascia sedurre dalla mite figlia del detective (simbolo di amore puro) che dalla conturbante signora in blu (verso cui rivolge attenzioni inaspettate e quasi feticistiche). Jeffrey è un personaggio molto particolare e sostanzialmente duale: archetipo del “bravo ragazzo della porta accanto“, è altrettanto efficace come indagatore improvvisato, attratto inconsciamente da quello che si rivelerà il personaggio chiave nel film o forse, solo dalla sua storia dolorosa (da cui la battuta “non so se sei un detective o un pervertito“). Blue velvet si prefigura una storia di mistero, in cui vengono svelati vari, progressivi scheletri nell’armadio (Jeffrey che si nasconde letteralmente nell’armadio, guarda caso), innestati negli appartamenti dei rispettivi protagonisti, e basati su varie forme di feticismo, relazioni sadiche e sado-masochiste. L’ingresso in scena di Frank, un sadico criminale con una dipendenza da un gas (probabilmente popper), porrà il protagonista nella condizione di autentico voyeur, certificandone i tratti e coinvolgendolo in una storia molto più grande di lui.

    Hai messo la tua malattia in me.

    Il film suscitò anche discrete polemiche all’epoca dell’uscita, rimarcate dal critico Roger Ebert il quale, pur amando quasi incondizionatamente gli altri film di Lynch, fu estremamente critico nei confronti di Blue velvet, tacciandolo di volgarità e misoginia: la presunta degradazione del corpo della Rossellini, tuttavia, sembra funzionale all’intreccio (Dorothy è sottomessa a Frank perchè, di fatto, viene ricattata da quest’ultimo, dato che Frank gli ha rapito sia marito che figlio) e non è mai fine a se stessa. E anche se si volesse pensare ad un parallelismo con romanzi erotici tipo Histoire d’O, in cui esiste una sorta di sublimazione erotica del rapporto masochistico, bisognerebbe sempre dare priorità al contesto. Questo è vero, secondo me, perchè la forza dell’intreccio è determinata proprio dalla relazione controversa, scabrosa e obiettivamente difficile da risolvere, in cui Jeffrey è attratto contemporaneamente dalla purezza di Sandy e dalla perversione di Dorothy (salvo poi empatizzare con entrambe), senza che ciò abbia connotati di manifesto sociale ma solo, più semplicemente, con valenza simbolico-concettuale, come spessissimo avviene in Lynch.

    C’è da sottolineare a questo punto che, come spesso accade nelle produzioni di Lynch (e come sottolineato da Slavoj Zizek, ad esempio) tutte le scene più esplicite di Velluto blu sono ambientate in una sorta di non-luogo, che è l’appartamento della signora in blu, in cui ogni inibizione morale è abolita (si praticano sesso sadico e voyeurismo) e dove lo spettatore, per primo, è costretto ad affrontare i propri tabù, le inibizioni ed i desideri più inconfessabili. E vale lo stesso discorso per le scene più violente, che avvengono in un parcheggio sperduto che sembra tratto da un incubo senza fine per il povero Jeffrey. I due episodi chiave si trovano al centro di una storia che, lo ricordiamo, è un noir classico, con un focus sull’indagine “autogestita” dal protagonista che fa da contorno ad un disvelamento psicologico e sessuale dei personaggi sempre più esplicito, con il ruolo dei personaggi che finisce quasi sempre per travalicare le apparenze. A questo si aggiunge un clima sempre più crudo ed exploitativo, che si avvia durante la cattura di Jeffrey, ripetutamente aggredito e umiliato dalla banda di Frank con dinamiche che, quasi insolitamente per Lynch, sembrano tratte da un road movie di qualche decennio prima. Clima che poi diventa quasi tarantiniano: al rientro nell’appartamento di Dorothy, la vista del marito di lei assassinatoo e dell’uomo in giallo in piedi, lobotomizzato, siamo semplicemente al clou della storia. Dopo circa due ore di film, peraltro, resta benzina anche per un discreto twist finale, in cui Lynch relega al protagonista un ruolo risolutore e liberatorio, per quanto (o forse proprio per via del fatto che) la vicenda l’abbia quasi distrutto psicologicamente. Jeffrey colpirà mortalmente il sadico Frank giusto sbucando dall’armadio, lo stesso che – tradizione vuole – nasconde gli amanti di ogni ordine e grado, e che lui stesso aveva sfruttato per definire il proprio bizzarro rapporto con Dorothy. Dorothy che lo ama, Dorothy che vuole essere maltrattata da lui, Dorothy che provoca una crisi ad entrambi – per poi rientrare nei ranghi della normalità, con un finale profondamente utopistico e carico di positività, in cui Lynch affida ai pettirossi il ruolo simbolico della rinascita, interrogandosi pero’ sull’ennesima bizzarria: come faranno mai a nutrirsi di insetti?

  • Non è un paese per vecchi: nella mente di Chigurh (e oltre)

    Non è un paese per vecchi: nella mente di Chigurh (e oltre)

    1980: durante una battuta di caccia Llewelyn Moss si imbatte casualmente in un regolamento di conti tra bande della zona. Mentre si guarda attorno, trova una valigia piena di soldi in contanti…

    In breve. I fratelli Cohen propongono un intreccio quasi alla Tarantino, e lo declinano come un noir snello, accattivante e moderno. Un gran film che riscuote, ancora oggi, il successo che merita, al netto di un finale spiazzante che potrebbe, per varie ragioni, non piacere a tutti.

    In Italia lo abbiamo conosciuto nelle sale nel 2008, e da allora è stato un tripudio di premi vinti: 4 Oscar, come miglior film, migliore regia, miglior attore non protagonista per Javier Bardem e migliore sceneggiatura non originale, più un David di Donatello come miglior film straniero.

    Non è un paese per vecchi – a dispetto del titolo che suggerisce, falsamente, un mood da cinema d’essai – è il noir snello e accattivante che un po’ tutti stavano aspettando, diretto e brutale quanto basta, movimentato e ricco di colpi di scena, senza orpelli o personaggi inutili, per sua natura avulso da riflessioni cripto-intellettuali. In un certo senso è anche curioso osservare come “non è un paese per vecchi” sia una massima ancora valida, ancora più sinistra ed attuale oggi rispetto a 13 anni fa, in tempi di pandemia o post-pandemia che dir si voglia (al momento in cui scrivo non è chiaro di quale delle due sia più lecito parlare). Un film da non confondersi, per la cronaca (lo scrivo per evitare svarioni a cui non sarei stato immune fino a qualche ora fa) con Non è un paese per giovani, che è una commedia italiana decisamente su altri toni, uscita 9 anni dopo questo lavoro.

    Il film dei Cohen ha intrigato soprattutto per la sua linearità di fondo, che non è mai banalità o faciloneria, e che si ammanta di un’eleganza inconfondibile che spesso, in film del genere, latita – specie qualora cedano al trash tipico dei film d’azione modello The guest. Difficilmente un film è riuscito a suscitare più interrogativi e curiosità sul web, peraltro, di “Non è un paese per vecchi“: dalla quantità colossale di aforismi (a volte citati a sproposito, come classico effetto web impone), passando per le curiosità su vari aspetti insoliti della trama – che si ravvisano soprattutto nel twist a circa 20 minuti dalla fine, che spiazza il pubblico per via del suo climax (lo stesso che sarebbe consuetudine, in questi casi) stravolto questa volta in modo imprevedibile, impossibile da raccontare senza fare spoiler. Come se non bastasse, c’è poi un’unica nota concettuale proprio nella sequenza finale, in cui lo sceriffo racconta due sogni che ha appena fatto, che se dicono qualcosa del suo confuso senso di colpa (sul quale si potrebbe scrivere un tomo di psicologia, dato che si tratta la consueta frustazione da poliziotto cinematografico che non può, nè potrà mai avere, il pieno controllo della situazione).

    Il film del 2008 dei Cohen è virato sui toni del noir-western in chiave moderna, in cui si racconta una storia che sarà abbondantemente ripresa anche da film come Hell or high water, film he sembra aver “imparato la lezione” proprio da qui. Se è vero che la bellezza delle cose risiede nella semplicità, del resto, la cosa vale anche per Non è un paese per vecchi, che si avvia su un intrigo simil-tarantiniano: un operaio reduce dal Vietnam si imbatte in un regolamento di conti tra spacciatori finito male. Sembrano tutti morti, tranne un ferito impossibilitato a muoversi, e a quel punto Llewelyn Moss (teoricamente il “buono” della storia, dalle fattezze che evocano curiosamente il Kurt Russell dei tempi d’oro) pensa bene di portarsi via la classica valigia piena di soldi. Sarà l’inizio di una feroce persecuzione da parte dei complici dei criminali, che inizieranno a seguirlo per riprendersi il malloppo, senza contare la polizia che si metterà anch’essa sulle sue traccie avviando una duplice caccia all’uomo (che poi diventerà triplice, dato che anche altri personaggi si metteranno in coda, mossi da rispettivi interessi).

    Se le regole che hai seguito ti hanno portato fino a questo punto, a che servivano quelle regole?

    Non è un paese per vecchi si svolge su almeno tre piani paralleli: il punto di vista dello sceriffo che indaga sul caso, e che propina la massima del titolo (all’inizio infatti lo sentiamo snocciolare, nei suoi ricordi fitti di sensi di colpa, una considerazione sul tasso di violenza attuale che rende, di fatto, gli anziani praticamente inadatti a sopravvivere a determinate circostanze). Abbiamo poi il punto di vista di Moss, immedesimato nella parte della preda in una tesissima caccia da cui, da buon film USA, riesce comunque a destreggiarsi tra armi, fughe e salvataggi in extremis senza complimenti.

    Non poteva mancare – ed è forse quello che impreziosisce di più la pellicola – il punto di vista del cinico Chigurh, il personaggio più spaventoso e profondo del film, tra i più motivati a riprendersi il maltolto, dotato di una singolare crudeltà, tanto da uccidere con modalità che ricordano quelle di un enigmatico villain modello Venerdì 13 o Halloween. Il vero protagonista in effetti è proprio lui, tanto che la vera anomalia – a volerne cercare una ulteriore – è che il film non riporta il suo nome nel titolo. La profondità del personaggio dal punto di vista psichiatrico, peraltro, è confermata da uno studio pubblicato da Business Insider, che colloca Chigurh tra gli psicopatici più realistici mai rappresentati su uno schermo, superiore anche al protagonista di Henry: questo avviene sia per la sua apparente invincibilità (che lo rende simile a Michael Myers) che per la sua freddezza e mancanza di empatìa verso chiunque. Non solo: Chigurh mostra sempre un passo in più rispetto a tutti gli altri, e la sua scaltrezza lo caratterizza in modo profondo e lo rende, teoricamente, una sorta di spettro immortale (tant’è che viene appellato così almeno in un caso).

    La caratterizzazione dei tipi è forte, talmente marcata da restare impressa nella memoria più di qualsiasi altra cosa: il trittico in questione, di fatto, focalizza tre personaggi molto ben delineati, e questo si deve ovviamente alla regia e anche, probabilmente, sulla falsariga del libro da cui è tratto il film, No Country for Old Men di Cormac McCarthy.

    Che poi, a ben vedere, il film troppo mainstream nemmeno è, dato che i registi non risparmiano nulla sugli aspetti più truci, su qualche pennellata di humour nero e sulla mancanza (ovvia, a cominciare dal titolo) di happy end. Senza contare ulteriori aspetti che hanno catturato l’attenzione del pubblico come, per citare un esempio abusato, la singolarità delle armi utilizzate: il fucile a pompa “artigianale” di cui tutti hanno discusso (invenzione dei Cohen), ma soprattutto la pistola ad aria compressa o a proiettile captivo, che è quella che viene utilizzata da Chigurh all’inizio (quella collegata ad una bombola). Piccoli e grandi dettagli, insomma, che riescono in un’impresa titanica rispetto a quello che in ballo: tenere lo spettatore effettivamente incollato alla poltrona fino alla fine, violando addirittura la massima (attribuita a Hitchcock) sul fatto che “la durata di un film dovrebbe essere direttamente proporzionale alla capacità di resistenza della vescica umana“: Non è un paese per vecchi dura un paio d’ore, è ricco di avvolgenti colpi di scena e riesce, soprattutto, a non pesare sulla soglia di attenzione dello spettatore medio, essendo cinema diretto, efficace e privo di fronzoli.

    Sul finale tanto è stato scritto: tanto da sembrare nulla, data l’inevitabile crittografia e messaggi in codice che i critici hanno usato e abusato nella situazione. Il motivo per cui il film ad un certo punto sembra collassare su se stesso suggerisce una forma di marcato nichilismo, a cui i due registi sembrano aderire senza remore. Il tutto nonostante le considerazioni promosse nella trama sul male e l’avidità degli uomini sembrino quasi moralisticheggianti, o addirittura banalotte. C’è da dire, peraltro, che è la figura dello sceriffo a risollevare almeno in parte le sorti della vicenda, la quale si sarebbe potuta chiudere sull’ambiguità o su registri analoghi. La certezza materialistica, di fatto, è che Chigurh uccide, e ciò cede il passo a qualsiasi altra considerazione (almeno in apparenza).

    In realtà alla fine la narrazione viene dirottata su un piano onirico-concettuale: lo sceriffo ammette indirettamente ad un altro personaggio il proprio senso di colpa per episodi del proprio passato finiti male, per i quali non c’è stata giustizia, poi racconta alla moglie di uno strano sogno in cui c’era il padre (morto quasi certamente sul lavoro, da sceriffo, anche lui) che in un caso gli dava dei soldi, in un altro camminava assieme a lui, diretti verso una meta ignota. Come questo si leghi alla storia a cui abbiamo assistito non è dato sapere, ma resta senza dubbio più rilevante di qualsiasi altra considerazione il fatto che l’uomo sembri, grazie alla narrazione catartica che si concede – e sia pur nelle ombre di due sogni che denotano forse il turbamento del proprio inconscio – liberarsi dal fardello del senso di colpa che lo attanagliava da sempre. Questo mi sembra il punto chiave, fermo restando che scomodare altri aspetti significa quasi certamente fare solo illazioni. Il focus dell’intreccio, a quel punto, sembra diventare universale, suggerendo che una possibile consolazione sia proprio nel senso di liberazione dall’impotenza – e forse dal controllo ossessivo-compulsivo tipico delle autorità, che vorrebbero poter prevenire o curare tutti i mali del mondo.

    Motivi validissimo per riprendere ancora oggi visione dell’opera, davvero molto bella (nonostante quel finale innestato quasi “a tradimento” rispetto al ritmo generale del lavoro), che non risente del tempo trascorso e che, se da un lato è forse esagerato considerarla tra le pellicole più belle del secolo, dall’altro va riconosciuta la sua capacità di sintesi e di ispirazioni per molte generazioni di cineasti successive, che da qui avrebbero attinto a piene mani nel seguito. Di sicuro, peraltro, non è un’esagerazione pensarlo come un film su uno dei serial killer più impressionanti mai visti al cinema, in grado di rivaleggiare con qualsiasi altro, ed in grado anche di rendere quel male espressione universale delle angosce che viviamo ogni giorno.

    Disponibile in streaming sulle piattaforme Netflix e Chilli.

  • La scuola cattolica: l’Italia anni ’70 basata sul romanzo di Albinati

    La scuola cattolica: l’Italia anni ’70 basata sul romanzo di Albinati

    Settembre 1975, Roma: un gruppo di ragazzi benestanti frequenta una scuola cattolica, in cui ogni insegnamento è erogato alla luce della religione, mentre le contraddizioni non mancano, a nessun livello, e presto esploderanno. Si tratta del contesto in cui emergeranno i fatti tristemente noti della strage del Circeo.

    In breve. Un film tragico e realistico, ispirato a fatti realmente accaduti, che lascia un profondo segno nelle coscienze, tra mille irrisolti e ingiustizie.

    La scuola cattolica racconta una Roma anni ’70 parzialmente atipica, lontana dal contesto generale in cui si muoveva la società dell’epoca ed in cui un delitto, alla fine, sarà commesso quasi come fosse un gioco come un altro.

    Il focus del film dovrebbe coincidere con quello del romanzo di Albinati da cui è tratto, vincitore di un Premio Strega nel 2016. Se la cinematografia di genere ha raramente raccontato la strage del Circeo nella storia, resta vero che si è ispirata a quei fatti a più riprese, ispirando – anche solo a grandi linee – film controversi di fiction come La casa sperduta nel parco o Morituris. Ma il parallelismo finisce lì, perchè sembrano molto diverse le motivazioni: se quei lavori erano (in alcuni casi) finalizzati allo shock dello spettatore e ad una filosofia nichilista,  in questa sede la sofferenza interiore dei personaggi (e la loro violenza malcelata) è frutto del contesto sociale, a cui il regista conferisce grande rilievo. Gran parte del film, infatti, è abile a mostrare contraddizioni innate: padri autoritari che picchiano i figli, una società poco aperta agli scambi con l’esterno, un perbenismo di facciata che si specchia narcisisticamente nella finta sicumera dei giovani protagonisti. Giovani che si ritrovano immersi in un contesto asettico e machistico, che era destinato, in effetti, a lasciare il segno anche sulle generazioni successive.

    Questo vale non solo dal punto di vista della storia narrata (alcuni dettagli di cronaca mancano, come ad esempio il fatto che i ragazzi avessero inizialmente offerto dei soldi alle ragazze per avere del sesso, le stesse abbiano rifiutato e da lì sia degenerato il tutto in violenza), ma anche del contesto in cui si muovono i personaggi: si evidenzia come fosse svolta l’educazione cattolica, come il clima di repressione sociale avesse finito per creare uno strato di polvere sotto il tappeto, impossibile da nascondere ulteriormente, ma anche di come la sessualità – in fondo – finisse per spaventare tutta quella generazione, vedi ad esempio il coming out del padre di uno di quei ragazzi, abbastanza per destabilizzare la serenità familiare. Insomma, regia e sceneggiatura sembrano suggerire che il contesto irreprensibile e benestante non sia stato sufficente a prevenire quei fatti. Il sequestro delle due giovani donne, di cui solo Donatella Colasanti riuscirà a salvarsi (come noto, fingendosi morta), è il picco a cui si perveniene in modo quasi inaspettato, per un film che ha il chiaro intento di porre domande tuttora irrisolte, nonchè oggetto di infiniti dibattiti parlamentari (lo stupro venne considerato reato contro la persona – e non solo contro la morale pubblica – dal 1996 in poi).

    La regia di Mordini è abile a contestualizzare la trama, peraltro, anche dal punto di vista delle uscite cinematografiche dell’epoca: la madre sessualmente repressa è distratta per strada dalla locandina di un film erotico (molto in voga all’epoca), mentre il cinema in cui sarebbero dovuti andare i ragazzi, ad esempio, mostra di sfuggita la locandina di Profondo rosso. Mancano invece riferimenti politici veri e propri, dai movimenti extra-parlamentari alle vicende socio-politiche dell’epoca, scelta forse dettata dal voler sottolineare l’ambiente ovattato in cui quei ragazzi erano cresciuti, oltre ad una mirata critica a quella forma di educazione cattolica. E fa una certa sensazione, forse, che manchino del tutto i riferimenti agli estremismi politici dell’epoca, che condizionarono almeno in parte la cronaca, cosa che il film cita solo di sfuggita (uno dei ragazzi viene ripreso dal professore di italiano per aver svolto un tema elogiativo di Hitler, ed un suo compagno accenna un’invettiva contro il “socialismo” per difenderlo). Resta il dubbio sull’efficacia della scelta, ma al netto di questo il film colpisce nel segno, oltre ad essere vittima di un (abbastanza clamoroso) episodio di censura.

    Il ministro Franceschini, qualche tempo fa (inizio aprile 2021) aveva annunciato l’abolizione della censura cinematografica, considerando pertanto “definitivamente superato quel sistema di controlli e interventi che consentiva ancora allo Stato di intervenire sulla libertà degli artisti” (lo stesso meccanismo che aveva colpito il succitato lavoro di Raffaele Picchio, Morituris, oltre a Totò che visse due volte di Ciprì e Maresco). Di fatto ha l’aria di essere, nella pratica, un’abolizione – che semanticamente implicherebbe la scomparsa in toto del meccanismo – solo formale, perchè alla fine dei conti essa finisce per scaricare la responsabilità della classificazione (attraverso divieti ai minori di 6, 14 o 18 anni) sulla produzione, mentre una Commissione unica composta da varie personalità (tra cui psicologi, pedagogisti e ambientalisti) può confermare la scelta o, al limite, suggerire la propria. Un riassemblamento di regole precedenti, insomma, rivedute e corrette, che forse cambiano meno di quanto potrebbe sembrare a prima vista.

    Nel caso del film in questione, la Commissione ha ritenuto di vietare La scuola cattolica ai minori di 18 anni, per via della (presunta) equiparazione tra vittime e carnefici proposta dal soggetto. Vale la pena di ricordare che questa motivazione (“Il film presenta una narrazione filmica che ha come suo punto centrale la sostanziale equiparazione della vittima e del carnefice […] incapaci di comprendere la situazione in cui si trovano coinvolti“) non è troppo diversa dal feeling totalizzante e distruttivo che bocciò Morituris (ben più feroce: “la Commissione ritiene la pellicola un saggio di perversività e sadismo gratuiti“), e fa riflettere che il secondo giudizio, sia pur su un’opera di fiction, abbia addirittura bloccato l’uscita nelle sale dell’opera.

    Nonostante il feeling dei due film sia diverso – il lavoro di Picchio è un horror surreale contenente un climax apocalittico di violenze, che evoca un senso di colpa collettivo, quasi lovecraftiano, sull’intera umanità, quello di Mordini narra fatti reali, mostra una società in crisi, non insiste sulla violenza, la tratta con il giusto equilibrio – qualche riflessione possiamo farla. Nonostante La scuola cattolica non sia un film per bambini, vietare ai minori un film del genere, che tratta di delitti reali avvenuti tra ragazzi giovanissimi, tra cui un minorenne, appare quantomeno paradossale, proprio perchè non sembra esattamente favorire un qualsiasi dibattito in merito, che invece sarebbe stato fondamentale. Il problema di fondo della censura, a questo punto, risiede forse nell’arbitrarietà delle sue scelte, al netto dei cavilli burocratici che la caratterizzano volta per volta, i quali possono sconfinare in giudizi di merito sulla parte artistica. La sostanziale equiparazione della vittima e del carnefice di cui si parla in quelle motivazioni, a mio parere, è una considerazione arbitraria o discutibile, tutt’altro che assodata: se fosse così, da un certo punto di vista, avremmo assistito ad una shoxploitation cruda, cinica o sessista, cosa che il film si guarda bene dall’essere.  Impedire la visione ai minorenni di un film del genere, come risulta ad oggi, rischia di essere definitivamente fuorviante rispetto alla sostanza dell’opera, spostando inesorabilmente l’attenzione sul dito, per non guardare la luna che stava indicando.

    Di fatto La scuola cattolica è diretto in modo lineare, cupo e con la sensazione costante che qualcosa non quadri, che ci sia qualche scheletro nell’armadio di quelle vite apparentemente irreprensibili, lasciando un monito di profondo vuoto nella coscienza degli spettatori. Gli sguardi fissi di molti personaggi, quasi ad annunciare la loro definitiva degenerazione (e che ricordano quelli dei pazienti psichiatrici, per certi versi), rimarranno impressi nella memoria degli spettatori per molto tempo, evocando un senso di nulla, di mancanza di tutele, di mancanza totale di sensibilità di una società che certe idee di quei gruppi sociali le ha quasi interiorizzate, fuorviata dal benaltrismo imperante. Un vuoto spaventoso che, ancora oggi, non si è colmato, soprattutto sulla falsariga dell’eco della frase finale del film, che cito a memoria: per molto tempo molti genitori si preoccuparono che i propri figli potessero fare lo stesso. Poi, tutto tornò come prima.

  • Quei bravi ragazzi: cast, produzione, sinossi, curiosità e spiegazione finale

    Quei bravi ragazzi: cast, produzione, sinossi, curiosità e spiegazione finale

    Il film narra la storia di Henry Hill, un giovane italoamericano che entra a far parte della mafia italoamericana di New York negli anni ’50. Seguiamo la sua ascesa all’interno dell’organizzazione, le sue connessioni con i suoi compagni criminali Jimmy e Tommy, e la sua relazione tumultuosa con la moglie Karen. La narrazione mostra come la vita criminale inizialmente sembri affascinante e redditizia, ma poi si trasformi in un vortice di violenza, tradimenti e paranoia.

    Cast Principale

    • Ray Liotta nel ruolo di Henry Hill
    • Robert De Niro nel ruolo di James “Jimmy” Conway
    • Joe Pesci nel ruolo di Tommy DeVito
    • Lorraine Bracco nel ruolo di Karen Hill
    • Paul Sorvino nel ruolo di Paul Cicero

    Produzione

    Il film “Quei Bravi Ragazzi” è stato diretto da Martin Scorsese e rilasciato nel 1990. Il regista ha lavorato con una squadra talentuosa e un cast eccezionale per portare alla vita l’adattamento cinematografico del libro “Wiseguy” di Nicholas Pileggi.

    Curiosità

    • Joe Pesci vinse l’Oscar come Miglior Attore Non Protagonista per il suo ruolo nel film.
    • Il personaggio di Tommy DeVito, interpretato da Joe Pesci, è basato su un vero membro della mafia, Thomas DeSimone.
    • Martin Scorsese fa un breve cameo nel film come malvivente che dà una delle pistole a Tommy.

    Spiegazione Finale

    Avviso spoiler

    Nel finale del film, la tensione all’interno della mafia raggiunge il suo culmine. Jimmy teme che Henry possa tradirlo alle autorità, quindi decide di eliminare Henry. Jimmy convince Henry a fare un’ultima attività criminale, ma in realtà sta organizzando il suo omicidio. Henry si rende conto dell’inganno quando si trova in un luogo isolato insieme a Tommy. Quest’ultimo viene ucciso da Jimmy, dimostrando l’imprevedibilità e la brutalità dell’ambiente criminale.

    Henry decide di collaborare con il governo e testimoniare contro i suoi ex colleghi, cercando di ottenere un nuovo inizio lontano dalla criminalità. Il finale del film ritrae Henry con una nuova identità e una nuova vita, testimoniando in tribunale contro i suoi ex complici. La scelta di Henry di tradire la sua famiglia mafiosa riflette il conflitto tra il suo desiderio di proteggere la sua famiglia biologica e la sua affiliazione alla famiglia criminale.

    In questo modo, il finale del film sottolinea la fragilità delle relazioni all’interno della mafia, l’ineluttabilità della violenza e il prezzo delle scelte criminali.