Recensioni

Raccolta di opere che qualcuno deve aver visto in TV, al cinema o in DVD. Trattiamo soprattutto classici, horror, thriller e cinema di genere 70/80. E non solo. Contiene Easter Egg.

  • The house: tre episodi a tema domestico (e domotico), su Netflix

    The house: tre episodi a tema domestico (e domotico), su Netflix

    Una famiglia povera quanto manipolabile. Un early adopter delle nuove tecnologie decisamente stressato. Una padrona di casa ossessionata da ristrutturazioni che non farà mai. Elemento narrativo comune, naturalmente: l’abitazione.

    In breve. Episodi animati con una singolare e vividissima tecnica di stop motion, mossa sui toni della dark comedy (ma anche del cinema sociale), con ispirati spunti satirici sulla società di oggi. Divertente e gradevole, con episodi ben bilanciati.

    Enda Walsh, irlandese classe 1967, scrittore e regista noto per Hunger e, verrebbe da dire, da oggi soprattutto per questo The house, da lui stesso interamente concepito. Un lavoro articolato come una serie antologica di animazione, caratterizzato da tre episodi ambientati in tre epoche diverse (un passato simil-ottocentesco, un presente tecnologizzato e – probabilmente – un futuro apocalittico di inondazioni). Un esempio di cartone animato in stop motion pensato per un pubblico adulto, e che – con le opportune accortezze e avvisaglie educative del caso – anche dei ragazzi potrebbero guardare senza troppi patemi. C’è tanto da scrivere su The house (cosa che faremo), ma volendo sintetizzare i tre episodi potremmo vederli come tre narrazioni parallele sul dramma della perfettibilità, l’ossessione che accomuna tanti di noi a crearsi vite, ambienti e relazioni “perfette”, impeccabili, prive di sbavature, lussuose, asettiche. Tendenza che viene seguita da molti a cominciare dalle proprie abitazioni, dove un granello di polvere non è mai il benvenuto, dove si entra solo con le ciabattine e dove il mood rupofobico è crescente, qualche che sia la ragione (e forse addirittura a prescindere dalla pandemia).

    Avviso – Per esigenze di trattazione, i seguenti capitoli potrebbero contenere spoiler, quindi suggerisco di leggere solo dopo aver visto il film .

    Primo episodio

    Argomenti trattati: conflitto generazionale, dramma familiare, vita confortevole vs spartana

    Ci troviamo nella casa di una famigliola di umile condizione, con due figlie piccole, afflitta da problemi economici e con un padre alcolizzato (oltre che dalle fattezze che richiamano, sia pur vagamente, E. A. Poe). Un giorno in cui l’uomo si è allontanato da casa per stare un po’ da solo, incrocia una misteriosa carrozza in cui un anziano signore, che si scoprirà essere un architetto, parla con lui senza che il pubblico senta ciò che si dicono. Si capirà poco dopo: l’architetto ha proposta al protagonista di cambiare casa, andando a stare in una tutta nuova e progettata sul momento all’unica condizione di firmare un contratto ed abbandonare per sempre la vecchia.

    Moglie e marito accettano, la casa viene fatta in tempo record e si tratta di una villa gigantesca che entusiasma i due adulti: le piccole non sembrano troppo d’accordo, e anzi nutrono una crescente curiosità-ostilità per la nuova casa e per le stranezze che la caratterizzano. Tanto per dirne una, sembra che l’architetto sia un po’ bislacco, e stia ancora facendo delle modifiche all’architettura, alterando addirittura la posizione delle scale e creando autentici paradossi spaziali nella casa, in cui le due bambine finiranno per perdersi. Come in Shining, la casa è popolata da presenza grottesche che occupano alcune stanze (e fissano in modo inquietante i nuovi inquilini). Non solo: come nell’opera king-kubrickiana la casa esercita un influsso straniante sugli adulti, che non solo diventano più severi e distaccati verso le figlie, ma si vestiranno da signori per adeguarsi all’eleganza della stessa, lavorando incessantemente ad accedere un camino difettoso e cucire a maglia una lunghissima coperta. La situazione culminerà in un fuoco purificatore da cui, ovviamente, solo alcuni avranno salva la vita, nella speranza di provare a ricostruire in futuro (forse) basandoci su valori meno speculativi. Un episodio dai toni gotici che ricorda, per certi versi, le prime opere animate di Tim Burton (chi ricorda Frankenweenie e Vincent, ad esempio?),  del cui sottogenere gotico rappresenta un buon excursus. Rimane qualche perplessità sul finale, significativo quanto non propriamente allegro e forse, per certi versi, troppo melodrammatico – soprattutto se si guarda The house come un cartone animato per bambini (cosa che non è): ma anche qui, come dire, basta saperlo dall’inizio.

    Secondo episodio

    Argomenti trattati: la casa come status symbol, nevrosi cittadine, devoluzione, entomofobia, rupofobia

    Il secondo episodio è l’autentico gioiello di The house: anzichè i pelosi e oscuri pupazzetti del primo, abbiamo, questa volta, dei topi antropomorfi come protagonisti. Uno in particolare, forse uno startupper oppure (stando a IMDB) un programmatore, sta cercando disperatamente un finanziamento per la propria società, passando le giornate al telefono a prendere contatti. Al tempo stesso vorrebbe vendere la propria casa, che cura compulsivamente in ogni dettaglio e si sforza di mantenere più che pulita, soprattutto disinfestandola dagli insetti che la assaltano (forse ciò avviene solo nella sua immaginazione, viene il dubbio).

    L’entomofobia non è nemmeno l’unica ossessione del protagonista, la cui antipatia verso blatte e simili va di pari passo, a ben vedere, con quella che proviamo da pubblico verso un topo umanoide pelosetto, vestito come un uomo e che cerca grottescamente di imitarne i tic, le manìe, le nevrosi. Il topolino, infatti, dorme in una cantina desolante e priva di mobilio, illuminata solo dalla luce del proprio smartphone ed il tutto, probabilmente, per non rovinare il lussuoso appartamento in vendita. La domotica scintillante che sfoggia, pertanto, non è per lui autentica fonte di comfort, ma solo un qualcosa da ostentare in presenza di ospiti.

    Lo snodo della storia avviene quando alcuni personaggi (due sorci goffi e ridicolmente vestiti da esseri umani) si mostrano interessati all’acquisto, e si installano letteralmente a casa sua prima ancora di averla comprato, creando una situazione ridicola e paradossale. Situazione che un po’ ricorda certi sketch da teatro dell’assurdo dei Monty Python, ma anche, verrebbe da scrivere, film come Madre! di Aronofsky, dove il tema della home invasion era stato ben sviscerato in modo non dissimile da questo, sia pure (in quel caso) con qualche velleità troppo densa, auto-riferita o etero-riferita che fosse.

    Il secondo episodio di The House è davvero straordinario, sia nella definizione spassosa della nevrosi del protagonista (che, ad esempio, sembra essere riuscito addirittura a sbagliare numero ogni volta che telefonava all’amata compagna) che nel finale, un vero e proprio twist che riporta la dimensione narrativa a quella di comunissimi topi o ratti, in grado di devastare l’appartamento e riducendo, suo malgrado, il protagonista ad un animaletto puramente istintuale, tutt’altro che evoluto. Un dramma grottesco che, in questo caso, non poteva che culminare nella devoluzione della razza-topo (e forse, per induzione, di quella umana).

    Terzo episodio

    Argomenti trattati: attaccamento domestico, resistenza e ostilità al cambiamento

    La scelta dei gatti come animali antropomorfi sembra dettata, in questo frangente, dal fatto che sono animali idrofobi (questo per motivi puramente evolutivi, per inciso). Ne vediamo una in particolare: una padrona di casa ossessionata dalle modifiche migliorative alla casa che affitta e che, nella sua idea, dovrebbero renderla degna di essere ricordata e di albergare le esperienze più indimenticabili. Cosa che difficilmente sembra poter avvenire: siamo in un probabile futuro prossimo in cui le inondazioni sono periodiche e frequenti, e la protagonista mostra paradossalmente più attaccamento alle mura domestiche che ai due inquilini, entrambi morosi da diversi mesi (un gatto in grado solo di disegnare, e una gatta hippie a cui presto si avvicenderà un compagno “guru”). In questo caso se il tema portante dell’episodio è chiaramente l’irrealizzabilità del “progetto” (ed il fatto che troppi non riescano a immaginare alcun “cambio di rotta” anche in situazioni estreme), il focus narrativo è molto abile a rendere inizialmente antipatici i due inquilini, che poi saranno quelli a conquistare le simpatie del pubblico, al contrario della padrona che sembra all’inizio l’unica ragionevole.

    Cosa ancora più interessante (e stando a IMDB), questa è solo la prima stagione, The House non finisce qui: si attendono notizie su ulteriori episodi che potrebbero, plausibilmente, vedere la luce a stretto giro.

  • Fantozzi: cast, storia, cenni alla regia, produzione, stile, sinossi, curiosità, trailer

    Fantozzi: cast, storia, cenni alla regia, produzione, stile, sinossi, curiosità, trailer

    Titolo: Fantozzi

    Anno di uscita: 1975

    Cast Principale:

    • Paolo Villaggio come Ugo Fantozzi
    • Milena Vukotic come Pina Fantozzi
    • Gigi Reder come Ragionier Filini
    • Anna Mazzamauro come Signora Silvani
    • Plinio Fernando come Geometra Calboni
    • Liù Bosisio come Signora Calboni
    • Renato Scarpa come Mariangela Fantozzi

    Regia: Luciano Salce

    Produzione: Giovanni Bertolucci e Ugo Tucci

    Stile: “Fantozzi” è un film italiano che appartiene al genere della commedia. Il suo stile è caratterizzato dall’umorismo surrealista e dalla satira sociale. Il film prende di mira le dinamiche dell’ufficio e della vita familiare in Italia, presentando il protagonista, Ugo Fantozzi, come un antieroe che affronta una serie di situazioni ridicole e imbarazzanti.

    Sinossi: Il film racconta la storia di Ugo Fantozzi, un impiegato italiano medio che lavora in un ufficio governativo. Fantozzi è costantemente sottoposto a umiliazioni e disavventure nella sua vita lavorativa e familiare. Dal rapporto difficile con il suo capo, il dottor Filini, alle incomprensioni con sua moglie Pina, Fantozzi è costantemente in balia di situazioni comiche e assurde.

    Curiosità:

    • “Fantozzi” è il primo film della popolare serie di film basati sul personaggio di Ugo Fantozzi, interpretato da Paolo Villaggio. La serie ha avuto numerosi sequel.
    • Il personaggio di Fantozzi è diventato un’icona della cultura comica italiana, rappresentando l’antieroe per eccellenza.
    • Il film è stato un grande successo al botteghino italiano e ha contribuito a consolidare la popolarità di Paolo Villaggio come interprete di Fantozzi.
  • Salò o le 120 giornate di Sodoma

    Salò o le 120 giornate di Sodoma

    Tra le numerose analisi che sono state fatte su questo capolavoro nichilista di Pier Paolo Pasolini da tempo sono convinto che la parola chiave del film sia più Salò, che aiuta storicamente a contestualizzare la violenza rappresentata, che Sodoma (che è un richiamo al limite biblico). Sodoma è una città menzionata nell’Antico Testamento, principalmente nel Libro della Genesi. Insieme a Gomorra e ad altre città, Sodoma è stata distrutta a causa della sua empietà e della sua depravazione morale. Ne potrebbe rappresentare, al più, l’aspetto simbolico, il significato che si è voluto dare alle ben note violenze e depravazioni rappresentate, le quali – vale la pena di ricordarlo nella premessa, a nostro avviso – sono in effetti una rappresentazione degli abusi della gerontocrazia e del patriarcato entrate da mesi nel dibattito pubblico.

    I ragazzi che vengono imprigionati non hanno speranza, fin dall’inizio: viene premesso che si tratta di deboli creature incatenate, destinate al nostro piacere, spero non vi siate illuse di trovare qui la ridicola libertà concessa dal mondo esterno. Siete fuori dai confini di ogni legalità. Nessuno sulla Terra sa che voi siete qui. Per tutto quanto riguarda il mondo, voi siete già morti. E quella morte assoluta, simbolica e reale, esprime il paradosso che Pasolini stesso ebbe a dire: i giovani non capiranno questo film, quelli d’epoca benintenso, e probabilmente neanche quello di oggi (ci viene da aggiungere).

    Spiegare il significato di “Salò o le 120 giornate di Sodoma” a un ragazzo di oggi può essere delicato, dato il contenuto estremamente adulto e disturbante del film. Bisogna tener conto della sensibilità e dell’età del ragazzo. Tuttavia, in termini generali, si potrebbe dire che il film di Pasolini affronta temi molto profondi e oscuri riguardanti il potere, la corruzione e la degenerazione umana.

    Il film parla di quattro fascisti che assumono un controllo totale su un gruppo di giovani, utilizzandoli per soddisfare i loro desideri più perversi. Può essere interpretato come una critica alla malvagità e alla brutalità del potere, mostrando come coloro che detengono il controllo assoluto possano abusare in modo orribile delle persone più vulnerabili.

    Inoltre, il film può far riflettere sui concetti di degrado morale, perdita di umanità e sulla capacità delle persone di compiere azioni malvagie quando detengono il potere totale su altri.

    Per spiegare questo film a un ragazzo, potrebbe essere utile enfatizzare l’importanza della responsabilità, della compassione e dell’empatia. Si potrebbe discutere dell’abuso di potere e delle conseguenze dell’oppressione sugli individui, incoraggiando una discussione sull’importanza di promuovere una società basata sul rispetto reciproco e sulla giustizia.

    Tuttavia, a causa della natura estremamente adulta e disturbante del film, è essenziale valutare se sia appropriato o meno per l’età e la maturità del ragazzo in questione. Potrebbe essere più adatto concentrarsi su temi più leggeri e accessibili, in modo da garantire una comprensione appropriata e una discussione che sia adatta al suo livello di età e comprensione.

    Salò o le 120 giornate di Sodoma” è considerato uno dei film più controversi e provocatori nella storia del cinema per la sua rappresentazione cruda e disturbante della violenza e della depravazione umana. Pasolini ha voluto creare uno sguardo critico sulla società e sul potere, ma la natura estrema del film ha portato a una vasta gamma di reazioni, spesso negative, da parte del pubblico e della critica.

    Pier Paolo Pasolini venne assassinato prima dell’uscita di questo film: Pino Pelosi è indicato come responsabile, viene arrestato, ritratta varie volte la propria versione e non fu mai chiarito se l’omicidio sia avvenuto per sua manu o per colpa di altri sconosciuti presenti sul posto.

    Salò

    La città di Salò fu sede del governo della Repubblica Sociale Italiana (RSI), un regime fascista di Adolf Hitler ,durante gli ultimi mesi della Seconda Guerra Mondiale. La scelta di ambientare il film durante questo periodo storico specifico è intenzionale e significativa: Salò è diventata nota per essere stata la sede del governo fascista dopo che Mussolini venne destituito e arrestato nel 1943. Durante questo periodo, l’Italia era divisa in zone controllate dai nazisti e da altre forze alleate, e la RSI operava come una sorta di enclave fascista.

    Pasolini ha ambientato il suo film in questo contesto storico per mettere in luce l’abuso di potere, la corruzione e la degenerazione morale del regime fascista. L’orrore del film è l’orrore del potere abusante che non deve tenere conto di nulla e di nessuno. La rappresentazione delle perversioni sessuali si ispirano a De Sade, come note, e rendono la sessualità un inferno, un sinonimo di abuso, tanto marcato e spinto all’estremo che diventa difficile guardare una seconda volta Salò dopo averlo vista la prima. Ma non bisognerebbe perdere d’occhio la localizzazione storica: la scelta di usare Salò come sfondo per la storia è simbolica della disgregazione etica e della decadenza umana sottolineate nel film, nonchè del fatto che il fascismo continua a serpeggiare tra di noi.

    Il film “Salò o le 120 giornate di Sodoma” è stato diretto dal regista italiano Pier Paolo Pasolini ed esce nel 1975, poco dopo la morte del regista. Viene sequestrato quasi subito, è oggetto di infinite polemiche e divieti, fino alla sua riabilitazione e restauro successivo.

    Trama

    Il film è ambientato durante la Repubblica Sociale Italiana del 1944, durante gli ultimi giorni della Seconda Guerra Mondiale. Quattro potenti fascisti, noti come “Il Presidente”, “Il Magistrato”, “Il Vescovo” e “Il Duca”, organizzano un regime sadico e depravato in una villa isolata, dove rapiscono giovani uomini e donne per soddisfare i loro desideri sessuali e per esercitare il loro totale controllo su di loro. Questi prigionieri sono sottoposti a abusi sessuali, torture psicologiche e fisiche estreme.

    Il film è diviso in quattro parti, ognuna corrispondente a una delle quattro passioni umane principali: la sodomia, il sadismo, il necrofilia e l’omaggio finale alla volontà dei signori.

    Cast principale

    Il cast del film include attori come Paolo Bonacelli, Giorgio Cataldi, Umberto Paolo Quintavalle e Aldo Valletti nei ruoli dei quattro fascisti. Tra gli attori principali ci sono anche Hélène Surgère, Caterina Boratto e Elsa De Giorgi, che interpretano le figure femminili coinvolte nella storia.

    Alcune locandine del film

    Narrazione

    Il film è basato sul romanzo del Marchese de Sade “Le 120 giornate di Sodoma”. Pasolini ha usato il racconto del marchese nel contesto politico dell’Italia fascista, utilizzando la storia per commentare su vari aspetti della società, inclusi il potere, la corruzione, l’abuso e la violenza.

    La pellicola è estremamente controversa per le sue rappresentazioni esplicite e crudeli di violenza sessuale, tortura e umiliazione. È stata oggetto di censura e divieti in molti paesi per lungo tempo a causa della sua natura estremamente spaventosa.

    Produzione

    Il film è stato girato in diverse location in Italia, tra cui una villa nella città di Bologna. La realizzazione è stata caratterizzata da un budget limitato e da condizioni difficili durante la produzione.

  • Le nove vite di Fritz il gatto: il cartone underground che uscì prima di qualunque altro

    Le nove vite di Fritz il gatto: il cartone underground che uscì prima di qualunque altro

    Le nove vite di fritz il gatto” è un cartone animato del circuito underground americano risalente al 1974, tratto dal soggetto originale di Robert Crumb e sceneggiato da Ralph Bakshi. Esso rappresenta una violentissima satira polverosa, dura, sessualmente esplicita e piena di volgarità di ogni genere. Insomma il genere di opera che avrebbe prodotto forse solo un Bukowski in particolare stato di ebbrezza, che fulmina le convenzioni della castissima (almeno all’apparenza) società americana, facendosi gioco di chiunque: del governo, del lavoro, della famiglia, del proibizionismo e anche della stessa cultura underground da cui questo prodotto deriva.

    In breve: irriverente, politicamente scorretto, scurrile e sovversivo. Come sarebbero i Simpson e South Park, in altri termini, se fossero stati realizzati da Charles Bukowski.

    Si tratta a onor del vero del seguito di “Fritz il gatto“, l’opera prima della serie che non ha avuto molto successo qui in Italia, probabilmente per il discutibile doppiaggio di bassa qualità che venne realizzato: in questo episodio le cose vanno decisamente meglio, Fritz esce fuori in tutta la sua grottesca trivialità, sempre impegnato a fregarsene degli stimoli che vorrebbero che facesse una vita normale ed un lavoro ordinario, e preoccupato esclusivamente di tirare a campare godendosela il più possibile su ogni fronte. Per scansare la moglie conformista che sbraita contro di lui, gli rinfaccia la mancanza di responsabilità ed ammette di tradirlo, Fritz inizia a passeggiare per le strade della sua città in solitaria: incontrerà così i più assurdi personaggi che si possano immaginare.

    Essendo un gatto, Fritz ha la possibilità di rivivere le ben note “nove vite”, ed è così che nell’ordine si trova in nove pazzeschi mini-episodi che trasudano psichedelia e pulp da ogni poro. Roba che girava nei primi anni 70, che probabilmente dovevano produrre lo stesso effetto provocato oggi dalle puntate più crude di South Park, per intederci.

    1. Fritz incontra un portoricano (Juan), e si reca a casa della sorella di lui, Chita. Dopo averla convinta a fumare, i due iniziano a fare sesso ma vengono scoperti dal padre di lei, che rincorre Fritz armato di fucile il quale salta giù dalla finestra;
    2. successivamente fa amicizia con un ubriacone che afferma di essere dio in persona;
    3. si ritrova a letto con due ragazze tedesche, e successivamente psicoanalizza Hitler in persona. Il dittatore viene rappresentato da un cane con un solo testicolo;
    4. cerca di barattare un preservativo usato per una bottiglia di liquore, per poi scoprire di aver passato la gonorrea alla moglie del droghiere, con cui ha avuto una relazione clandestina;
    5. fa un viaggio nel tempo totalmente psichedelico e sconnesso negli anni 30, ballando il tip-tap;
    6. si rivolge ad un banco dei pegni gestito da un corvo ebreo, con il quale contratta per avere un assegno in cambio di una tazza del water. Alla fine ottiene in alternativa un casco spaziale;
    7. diventa quindi astronauta della NASA, deciso a partire in missione su Marte; durante l’attesa della partenza fa sesso con una reporter, ma alla fine l’astronave esplode nello spazio;
    8. parla con il fantasma del corvo precedentemente ucciso, ed ha una sorta di flash-forward in cui vede che il New Jersey è diventato “New Africa“, ed ospita solo corvi neri. Inviato lì come corriere, viene accusato ingiustamente di aver ucciso il presidente, di aver provocato la guerra tra New Africa e Stati Uniti e, alla fine, viene giustiziato;
    9. alla fine incontra un guru indiano ed il diavolo in persona dentro le fogne di New York, ma la visione viene interrotta dalla moglie che lo sveglia e lo caccia di casa, mentre il gatto afferma “Questa è la peggiore vita che abbia mai avuto“.
  • Brivido: macchine che si ribellano agli uomini, regia di Stephen King

    Brivido: macchine che si ribellano agli uomini, regia di Stephen King

    Come diretta conseguenza del passaggio di una cometa le macchine (dai cabinati di videogame ai bancomat, passando per camion e coltelli elettrici) impazziscono, e si ribellano agli uomini. Un gruppo di persone si ritrova in una stazione di servizio per provare una disperata fuga.

    In due parole. Un classico dell’orrore anni ’80, caratterizzato da una minaccia strisciante e infida che viene fuori dalle macchine, ed è in grado di rivoltarsi violentemente contro l’uomo. King, omaggiando il cinema di genere anni 50 e 60, con Brivido volle simboleggiare la propria inquietudine per l’avvento di una tecnologia in rapido sviluppo in quegli anni, che oggi (peraltro) appare obsoleta: nonostante questo, il film non sembra troppo vecchio rispetto all’età che ha, e presenta vari punti positivi che lo rendono puramente cult (anche se non al top).

    Annunciato con scarsa modestia (vedi tagline della locandina) come un masterpiece del terrore diretto da uno dei più grandi scrittori del genere, Brivido si rivela quasi subito, durante la visione, per quello che è: un modesto b-movie che, a seconda dei punti di vista, convince poco o abbastanza – ma diverte, tutto sommato. Anche solo per le situazioni che si vedono, perfettamente riconoscibili per i fan del regista (abituati alla sua scrittura ed agli scenari che descrive): il cinico boss della stazione di servizio, ad esempio, oppure la svampita che lavora ai tavoli, sono senza dubbio tra i più stereotipati.

    “Tesoro, se ho ben capito questa macchina mi sta dando dello stronzo” (S. King)

    A cominciare dal bancomat che insulta un cliente, passando per coltelli elettrici impazziti, camion con istinti omicidi, flipper che si muovono da soli, ponti mobili che si aprono senza preavviso e distributori di bibite che sputano lattine, con “Brivido” Stephen King tenta la sua prima ed unica esperienza registica, mostrando da subito una capacità fuori da comune di sintetizzare gli stereotipi dell’orrore. Il più grande pregio di un film del genere, del resto, risiede proprio in questa immensa capacità di sintesi, nel suo saper dire qualcosa senza dire nulla di nuovo. E questo si nota soprattutto nelle classiche situazioni e/o scenette tipiche del genere negli anni ’80: l’apparente normalità che aggredisce l’uomo, l’ambientazione in una stazione di servizio, i personaggi tipici – dal cinico alla svampita, passando per il lavoratore sfruttato nonchè deus ex machina – soprattutto i richiami alla situazione di stallo romeriana: tutti i personaggi restano intrappolati in un edificio per via di una minaccia esterna, trend inaugurato da La notte dei morti viventi.

    Questo avviene sia dal punto di vista delle sequenze, delle scene e delle svariate situazioni archetipiche per il genere, che da quello di valorizzare un cinema classico che stava per perdere, suo malgrado, numerosi colpi: un equilibrio globale piuttosto raro nel periodo, che potrebbe interessa il pubblico ancora oggi e fa sentire poco l’età del film stesso. Certamente il fatto che l’autore dello script sia uno scrittore di professione e soprattuto coincida con la figura del regista ha fatto sì che l’intera impalcatura potesse reggere in modo dignitoso, anche se (soprattutto se visto oggi) sembra fuoriluogo parlare di un vero e proprio capolavoro.

    Certamente si tratta di uno dei tanti classici del genere horror anni ottanta, per quanto non sia troppo raffinato o sanguinolento, e soprattutto nonostante la situazione base ricordi in parte (e con mezzi molto minori, ovviamente) quella vista nella popolare saga di Terminator o Hardware – Metallo letale – nelle quali, pero’, per macchine che si ribellano agli uomini si intendevano cyborg molto fighi.

    In definitiva un film per appassionati “raw & wild” o, se preferite, per onanisti dell’orrore. Colonna sonora affidata interamente agli AC/DC, su esplicita richiesta kinghiana.