Recensioni

Raccolta di opere che qualcuno deve aver visto in TV, al cinema o in DVD. Trattiamo soprattutto classici, horror, thriller e cinema di genere 70/80. E non solo. Contiene Easter Egg.

  • Dietro la porta chiusa di Fritz Lang c’era un mondo oscuro (ma non troppo)

    Dietro la porta chiusa di Fritz Lang c’era un mondo oscuro (ma non troppo)

    Cecilia è una giovane donna riluttante al matrimonio, che durante un viaggio in Messico conosce un affascinante architetto, che deciderà inaspettatamente di sposare. L’uomo sta sviluppando una teoria sull’architettura delle camere, che – a suo dire – sarebbero legate a ciò che succede, o è successo, all’interno delle stesse. Cecilia scoprirà una vera e propria collezione di stanze, di cui l’ultima è rimasta chiusa per motivi incomprensibili…

    In breve. Thriller d’epoca profetico per forma e sostanza, dai toni che richiamano Hitchcock e a cui molti altri registi sembrano essersi ispirati in seguito. Da un lato troviamo le porte della casa, un elemento portante della storia e con tutto ciò che implicano e sottintendono nella psicologia dei personaggi; dall’altro, alcune ingenuità della storia, ed il tono rassicurante del finale, finiscono per rendere godibile il film per ogni spettatore, più che renderlo fiacco. Rilevante perchè si può considerare quasi un saggio di psicanalisi, perchè il rapporto ambiguo tra i due coniugi è archetipico e anche perchè – in modo parzialmente involontario – molti elementi del film si ritroveranno anche in tantissimi gialli all’italiana.

    Incluso nella lista dei 1001 film da vedere prima di morire (1001 Movies You Must See Before You Die, scritto dal critico Steven Schneider, con volume disponibile su Amazon apparentemente solo in inglese), è uno dei padri più importanti e film più influenti per il genere giallistico, di cui eredita molti elementi che saranno poi tipici dei gialli all’italiana. Si tratta del primo film americano dell’attore Michael Redgrave, abbastanza in voga nel periodo e qui presente nella parte di Mark Lamphere, uno dei protagonisti della storia. Storia che Fritz Lang declina con toni hitchcockiani subito dopo aver tentato di realizzare una propria versione del celebre Rebecca – La prima moglie, con risultati tutt’altro che esaltanti, e finendo fuori budget e fuori tempo massimo.

    Secret Beyond the Door finisce per essere un film parecchio rilevante per il genere thriller, soprattutto nel proprio essere archetipico, quasi fuori dal tempo, prima di chiunque altro: la storia che racconta è morbosa quanto universale, non è invecchiata fino ai giorni nostri ed è girata con grande gusto per le immagini. Il film verte sulla progressiva scoperta da parte della protagonista (una Joan Bennett particolarmente calata nella parte) dell’identità reale del proprio compagno, dipinto inizialmente come mite ed affabile ed in realtà legato ad una morbosa storia legata, come in una favola nera, a sette stanze di cui una inaccessibile dall’esterno. Il soggetto, poi, è tratto da un racconto di Rufus King, dal titolo Museum Piece Nb.13.

    Valgono a molto, a riguardo, le parole di elogio del critico Cesare Sacchi, che sulla rivista Cineforum n.252 definisce “Dietro la porta chiusa” uno dei migliori saggi freudiani mai girati: “uno degli omaggi più seri ed attenti che il cinema abbia fatto alla cultura freudiana. Infatti, un caso clinico, presentato con rigore, sensibilità e competenza, viene contemporaneamente ridefinito, arricchito e trasfigurato in un linguaggio cinematografico allusivo, pregnante, quasi onirico, che risulta non solo molto aderente alla vicenda psicopatologica e terapeutica, ma sembra altresì in grado di suggerire e sottolineare l’intensità e in certo modo l’intimità di talune atmosfere relazionali, quali si producono, specificamente, nel corso di un’analisi“.

  • Phenomena: un capolavoro horror senza tempo, firmato da Dario Argento

    Phenomena: un capolavoro horror senza tempo, firmato da Dario Argento

    Jennifer viene dagli Stati Uniti per studiare in Svizzera, in una particolare regione detta la “Transilvania” della stessa. Si reca a risiedere in un collegio femminile, dove viene da subito presa di mira da una direttrice ultra-autoritaria (e vagamente cattolico-integralista, come si coglie da una sua battuta) e dalla maggioranza di allieve della scuola. Nel frattempo si stanno consumando dei misteriosi omicidi di ragazze molto giovani, e toccherà alla nostra Jennifer (che possiede un’insolita capacità telepatica di comunicare con gli insetti) riuscire a trovare il bandolo della matassa.

    In breve. Phenomena è sicuramente uno dei migliori film del periodo “tardo” argentiano, si parla del 1985 e della splendida (in ogni senso) protagonista Jennifer O’ Connelly.

    Vagamente simile per l’ambientazione e alcune scene al celebre Suspiria, vanta una serie di caratteristiche che lo hanno reso uno dei film più famosi ed influenti anche (e forse soprattutto) all’estero. Un’ambientazione prettamente naturalistica, piena di vermi ed insetti di ogni specie – fanno davvero paura, in fondo perchè mai? – in particolare insetti come la mosca cosiddetta “sarcofaga” che viene utilizzata dall’entomologo protagonista per datare i cadaveri.

    Si registra la presenza nel film di Dalila di Lazzaro (direttrice) e soprattutto del mitico e rimpianto Donald Pleasence (entomologo). Il film è carico, come raramente in Argento, di simbologie e metafore. In particolare, la figura di Jennifer non sta che a simboleggiare l’umanità persa, quella capace con la sua grande sensibilità di comunicare con gli insetti, ma impossibilitata a dire qualsiasi cosa ed a ricevere fiducia dagli altri esseri umani. Quegli esseri umani crudeli, cinici e senza cuore che la ridicolizzano e la prendono in giro per il suo essere “diversa”. Quel senso di discriminazione che la protagonista appaga soltanto con gli animali, che sono liberi dalle convenzioni ipocrite dell’uomo e non è escluso che vivano ogni cosa più intensamente, ivi compresi l’amore ed il rispetto per i propri simili. Una parabola ambientalista, senza dubbio, libera dai luoghi comuni e dalle ipocrisie che a volte la accompagnano.

    Un film assolutamente da vedere e riscoprire.

    Colonna sonora: Iron Maiden (Flash of the blade), Motorhead e Goblin.

  • Slacker: il film di Linklater ha inventato il cinema indie – prima che diventasse una moda hipster

    Slacker: il film di Linklater ha inventato il cinema indie – prima che diventasse una moda hipster

    Un giorno apparentemente ordinario ad Austin (Texas), raccontato in mezzo ad una folla di disadattati, emarginati, amanti della letteratura ed artisti.

    In breve. Piccolo cult in costante bilico tra dramma e commedia, ed a cui numerosi cineasti si sarebbero ispirati in seguito. Sicuramente rientra nei 10 film “fuori dalle righe” da non perdere.

    Con una innovativa struttura – quasi certamente per l’epoca in cui uscì – Linklater ci introduce nel mondo degli under-30 durante gli anni 90, la “Generazione X” che tanto ha subito in termini di snobistici pregiudizi. Uno slacker, in inglese, non è altro che una persona che rifiuta deliberatamente di svolgere un lavoro – e condurre una vita – normale, pur essendone perfettamente in grado di farlo; secondo l’Urban Dictionary il termine può anche fare riferimento a qualcuno che, pur essendo intelligente, non se la senta di fare nessun lavoro in particolare, oppure “una persona che tenda a rinviare le cose all’ultimo minuto, e non appena arriva quel momento… decide che non fosse così importante. Così se ne dimentica“. Viene in mente, in soldoni, un ibrido di più personaggi, incostante ma al tempo stesso vigile e – direi – con la lucidità del Jack Torrance di kubrickiana memoria, in particolare quando afferma (poco prima di impazzire) che “è il senso del dovere che ci frega, amico mio“: è questo ibrido, in fondo, ad essere il protagonista di Slacker, e ne vedremo diverse caratterizzazioni attraverso i suoi numerosi personaggi.

    Fannulloni, depressi, apatici e disperati di ogni genere si riuniscono in una “giornata tipo” collegata per semplici flash ed accostamenti spazio-temporali, senza raccontare una vera e propria storia o meglio, forse, raccontandone parecchie. Il loro rifiuto per il senso del dovere indotto dalla società consumistica li porta in una direzione autarchica, che predilige i rapporti umani e le disquisizioni filosofiche alle attività produttive o puramente lucrative. La tragicommedia, del resto, risiede proprio nel non avere idea di come concretizzare quelle idee, che restano così tali e sono destinate a rimanerci. Nel far svolgere il film, che non possiede una trama ma è l’unione di più storie (spesso incomplete, ma poco importa), Slacker non cede al citazionismo fine a se stesso, o peggio all’astrattismo su cui avrebbero virato molte produzioni indipendenti successive: semmai mantiene un focus equidistante, tanto calcolato da sembrare scientifico, sulle varie storie, e rende il clima suburbano di Austin, la città del Texas, il vero protagonista.

    In questo, Slacker potrebbe avere anticipato qualcosa del falso documentario o mockumentary, e ciò lo rende ulteriormente affascinante. Al regista andrebbe ufficialmente riconosciuto l’enorme merito di aver realizzato ciò che viene considerato uno dei più importanti film indipendenti della storia del cinema, ad oggi. Lo stesso Linklater, nel ritagliarsi il ruolo del passeggero del taxi (alle prese con un soliloquio da autentico “filosofo urbano” sugli universi paralleli: “ad ogni scelta che fai o decisione che prendi, la cosa che scegli di non fare si separa e forma una sua realtà, sai, e prosegue all’infinito, da lì in poi“) erge una sorta di manifesto sull’eterna indecisione di quella generazione, nata negli anni 70, che ha studiato meticolosamente l’evoluzione della letteratura, del rock e delle sue sperimentazioni (“Una volta ho pranzato con Tolstoj…un’altra volta ero un roadie di Frank Zappa“), ha fatto nascere un nuovo tipo di cinema ed avrebbe assistito allo sviluppo di una tecnologia che, di lì a breve, sarebbe diventata di massa,  alla portata di chiunque.

    Il racconto di vite decomposta e allucinata di un’intera generazione, verso una rivoluzione che mai sarebbe arrivata, ed un mondo del lavoro – già all’epoca – scheggia impazzita e disumana, per cui si sente inadeguata o fuori misura (“A tutti voi, lavoratori là fuori: ogni singola merce che producete è un pezzo della vostra stessa morte“), tra più sogni e realtà che finiscono grottescamente per perdersi nella propria autocommiserazione (“il sogno che ho appena fatto era come questi, solo che non succedeva niente di strano, cioè… non succedeva proprio nulla“). E se mediamente in un film, nella fase di montaggio, secondo IMDB possono contarsi fino a 1000 tagli, in Slacker ce ne sono solo 163, al fine di dare massima continuità ambientale alle scene, limitando così i passaggi bruschi. Potremmo affermare, pertanto, che Linklater ha realizzato un esperimento unico nel suo genere, che in mano a potenziali imitatori sarebbe facilmente risultato caotico, o peggio poco comprensibile al pubblico.

    Grandissima importanza, nel film, tendono ad assumere i fitti dialoghi, quasi sempre permeati di riferimenti alla cultura underground: lo stile metropolitano-bohémien, ciò che in seguito sarebbe stato chiamato grunge in contrapposizione agli yuppies, l’emarginazione, la solitudine, le macchinazioni in piccolo (il figlio che ha investito la madre) ed in grande (le teorie del complotto su JFK), i sogni, le passioni, le piccole band con cui provare ad ammazzare il tempo, ma anche le teorie sugli UFO e sugli allunaggi – molto prima, per inciso, che questi argomenti divenissero un fenomeno di massa come poi, di fatto, è avvenuto grazie al web. Slacker finisce per essere un manifesto degli anni ’90 realistico, a volte crudo e dall’elevato contenuto poetico, per chi all’epoca cercasse un lavoro, una vita, un’identità, il tutto sfruttando un espediente narrativo tipico della letteratura moderna come il flusso di coscienza (Joyce viene citato in almeno un’occasione) e le associazioni di idee.

    In questo apparente caos di citazioni e vite sconnesse emerge una sorta di manifesto generazionale: quello della Generazione X, sbandata e priva di riferimenti eppure, al tempo stesso, parte integrante del cambiamento radicale indotto da internet e dal web 2.0 che sarebbe arrivato, a livello globale, di lì a breve. Ed è questo, forse, il senso finale – e più plausibile – di Slacker: quello espresso dal personaggio in una delle ultime battute del film: “…i film sono fotografia, 24 volte al secondo. […] Da giovani si piange per una donna. Poi, quando invecchiamo… per le donne in genere. La tragedia della vita è che un uomo non è mai libero: eppure si sforza di essere ciò che non sarà mai. Ciò che è segretamente temuto… succede sempre. La mia vita, i miei amori, cosa sono adesso? Ma più il dolore aumenta, piu’ questo istinto per la vita in qualche modo si riafferma. La bellezza essenziale nella vita sta nell’arrenderti completamente ad essa. Svegliati, America”

  • Bomb City: se amate il punk, vi spezzerà il cuore

    Bomb City: se amate il punk, vi spezzerà il cuore

    Amarillo è sede di uno scontro sociale tra due modi di essere del mondo giovanile: da un lato punk, dall’altro jocks. Lo scontro finirà per esasperarsi fino alla tragedia.

    In breve. Splendido nella forma e devastante nella sostanza: un perfetto equilibrio tra realtà vissuta e romanzata, che rende Bomb City probabilmente uno dei migliori film a tema musicale mai girato.

    Questo film si basa sulla storia realmente accaduta a Brian Theodore Deneke, giovanissimo musicista punk morto nel 1997 ad Amarillo, Texas, per mano del coetaneo Dustin Camp. Non è l’unico film che racconta la sua storia (ci sono anche Criminal: Punks vs. Preps, trasmesso su MTV, e un episodio di City Confidential che ne parla), ma è quasi di sicuro quello che riesce a sintetizzare meglio lo scenario assurdo che si venne a profilare. Camp, infatti, ritenuto colpevole in prima istanza di omicidio volontario (investì il giovane punk con la propria auto durante una rissa), non scontò alcun anno di carcere e venne rilasciato.

    Il film è chiaramente una denuncia feroce contro il sistema giudiziario americano, e ne evidenzia l’ipocrisia e le contraddizioni a cominciare dal processo che viene presentato nei primi fotogrammi, a fatti già avvenuti, per poi ripercorrerne la storia attraverso un lungo flashback. Già l’arringa dell’avvocato difensore mette i brividi: pur difendendo un omicida, punta il dito contro l’immaginario punk ed i suoi slogan, strumentalizzandone i contenuti dei testi e ripetendo come un mantra negativo i suoi messaggi, ritenuti antisociali quanto anti-americani (“destroy everything“).

    Bomb City è il nickname di Amarillo dal duplice significato: da un lato “città esplosiva” per via dell’intolleranza e la contrapposizione middle-class tra giovani punk e ragazzi apparentemente per bene – in gergo jocks, ovvero gli archetipici giocatori di football “fighetti” tra cui Dustin Camp, chiamato Cody Cates nel film, evidenzia una cronica mancanza di carisma – dall’altro il nome deriva dalla presenza di una vecchia, spaventosa e suggestiva centrale nucleare.

    Il film, dotato di una fotografia oscura e suggestiva nel rappresentare un mondo stradaiolo realistico e difficile da vivere, evita il moralismo facile e punta il dito contro la situazione in sè, fatta di eccessi diversi da un lato e dall’altro, portando avanti un messaggio di rabbia ed un senso di ingiustizia che lascia, infine, lo spettatore annichilito. Esiste una lunga tradizione di horror, soprattutto anni 80 e 90, incentrati sulla middle-class USA e le sue mostruosità latenti (Society, ad esempio): ovviamente in senso stretto Bomb City non lo è, ma ne eredita buona parte del feeling rivoluzionario e di denuncia.

    Un film imperdibile, che potrà incuriosire anche chi non sapesse granchè sui fatti e non fosse necessariamente appassionato del genere musicale trattato. Molto fuori dalle righe, poi, la colonna sonora, fatta esclusivamente di musica hardcore punk del sottobosco underground dell’epoca.

  • The Bad Batch: pulp cinico alla Tarantino

    The Bad Batch: pulp cinico alla Tarantino

    In un futuro prossimo, una ragazza viene condannata a vagare nel deserto in quanto “indesiderata” dalla società.

    In breve. Singolare variazione di tema rispetto al post-apocalittico classico, che rimane sempre popolato di anti-eroi e che, in questa sede, vede una protagonista femminile.

    L’operazione della regista Amirpour (questo è il suo secondo film), fin dai primi fotogrammi si mostra debitrice del cinema di genere di ogni ordine e grado, con l’analogo più recente dato da Revenge, ma anche a livello di ambientazione desertica e surreale in Laissez bronzer les cadavres. Arlen prende molto delle tipiche caratteriste tarantiniane (Kill Bill, Pulp Fiction) ma, ancora prima, da film come Thriller – En grim film: anche in quel caso, in effetti, abbiamo una protagonista in cerca di vendetta (e con un vistoso problema fisico: una volta alla vista, l’altra agli arti).

    Lavori del passato in grado di ribaltare, da sempre, gli assunti narrativi mainstream, quelli che impongono “l’eterna lotta tra il bene ed il male“, li stravolgono, li rimasticano per poter poi proporre (in modo meno manicheo) una storia cruda, diretta ed esplicita come non mai.  È alquanto limitativo che ci si limiti a bollare come “tarantiniano” The bad batch, perché – alla prova dei fatti – è molto di più: basterebbe considerare sequenze simboliche e grottesche come la “comunione” dei seguaci del santone mediante LSD, ad esempio, per convincersene. Per quanto il ritmo del film sia costante e privo di buchi narrativi, la vera perla conclusiva è sul finale, che ironizza sul degrado che ha caratterizzato il film ed è costruito su un singolare humour nero.

    Se è vero che le dinamiche del film sono totalmente da film di genere (che è – quasi sempre, direi – esercizio di stile per il piacere di proporlo) qui si prova a trasmettere un feeling ulteriore allo spettatore. Ciò implica che, tirando troppo la corda sulle possibili interpretazioni, si rischi solo di proporne di ridicole. Al netto di questi dubbi, inevitabili per un film del genere, The bad batch sembra voler proporre – come nella tradizione post-apocalittica (si veda anche The divide)  – un’umanità completamente allo sbando, in cui la lotta per la sopravvivenza viene imposta fin da bambini ed in cui, soprattutto, si evidenzia come qualsiasi modello di società sia soggetto a limiti e problematiche.

    La storia, del resto, inizia dagli stessi presupposti da cui partiva Fuga da New York: nel film di Carpenter i reietti erano stati confinati in una città abbandonata, mentre qui (in un gioco complementare che richiama, a sua volta, film come Interceptor) sono mandati fuori, in esilio – in un deserto sconfinato, in cui sembrano coesistere vari villaggi ed altrettanti gradi di civiltà: tutte basate sull’abuso, sulla violenza o sulla manipolazione, ognuna con rispettivi limiti e nessuna davvero “perfetta”. Un pessimismo antropologico piuttosto evidente, visibile anche nei caratteri dei personaggi che non sono mai pienamente identificabili come “buoni” o “cattivi”.

    In The bad batch (letteralmente il lotto difettoso, l’indesiderato/a – per inciso, l’assonanza con The bad bitch sembra del tutto incidentale) coesistono i ricicli di genere, il cannibalismo, l’horror sociale, l’ambientazione modello Mad Max e il culto nichilista della vendetta, quella feroce (e femminile) inaugurata da film come I spit on your grave. Prescindere da tutti questi aspetti, come molte analisi piuttosto grossolane sul web hanno fatto, secondo me significa svilire completamente un’opera davvero interessante e, per quanto non inedita, in larga parte imprevedibile ed originale.