Recensioni

Raccolta di opere che qualcuno deve aver visto in TV, al cinema o in DVD. Trattiamo soprattutto classici, horror, thriller e cinema di genere 70/80. E non solo. Contiene Easter Egg.

  • L’horror low budget e surrealista di “Carnival of souls”

    L’horror low budget e surrealista di “Carnival of souls”

    L’organista Mary Henry è miracolosamente sopravvissuta ad un incidente stradale; poco dopo decide di lasciare la città per cambiare lavoro…

    In breve. Archetipo di horror tra il sovrannaturale e l’onirico, giocato esclusivamente su suggestioni e sottintesi; un lynchiano ante-litteram che molto ha influenzato il genere in seguito. Non per tutti i palati ma notevolissimo, soprattutto per l’epoca in cui uscì.

    Se dovessimo citare uno dei film più fuori dalle righe degli anni ’60 “Carnival of souls” entrerebbe di diritto tra le prime citazioni; girato in sole tre settimane con un budget bassissimo (17,000 dollari), ebbe scarso successo all’uscita – salvo poi diventare di culto in seguito. Solo nel 1989, infatti, venne trovata una nuova distribuzione (della Panorama Enterntainment) e Carnival of souls venne riproposto in alcune sale e festival tematici, riscuotendo un’approvazione unanime da parte della critica.

    Mary dovrebbe essere morta nell’incidente che vediamo all’inizio, eppure tutti l’hanno vista emergere dalle acque, senza ricordare nulla di come abbia fatto a salvarsi; nel frattempo, pero’, la sua vita (che potrebbe essere un’allucinazione, come un sogno-incubo pre-morte) cambia radicalmente, ed inizia ad essere tormentata da un uomo spettrale senza nome, che compare – e sembra richiamarla a sè – in vari momenti del film.  Un classico low-budget del terrore, insomma, giocato più sulle sensazioni che sul gore (qui del tutto assente); non per tutti, in tal senso, ma solo per fan hardcore del genere.

    Venne girato presso un suggestivo parco giochi nello Utah, che rappresenta una location perfetta per il senso di enigmatica sospensione su cui si basa il film stesso; un senso di limbo, verrebbe da dire, in cui la protagonista si muove con ritmo e spirito mutevole, forse consapevole di essere sfuggita ad un macabro destino. Questo spiega il suo atteggiamento cangiante ed imprevedibile nei confronti delle avances del proprio vicino di stanza nella pensione, come del medico che vorrebbe aiutarla e della mite padrona di casa: la sua umoralità e doppia personalità, a questo punto, potrebbe anche legarsi all’alternarsi del giorno e della notte, così come suggerito dalle sue stesse parole (“Il mondo è così diverso alla luce del giorno. Al buio si perde il controllo delle proprie fantasie … così facilmente. Ma alla luce del giorno, ogni cosa torna al suo posto“). Al tempo stesso, l’orrore si finisce per librare nell’aria in modo inevitabile solo nel seguito, quando Mary inizia a suonare melodie definite sacrileghe dal prete presso cui lavora, e quando rifiuta terrorizzata le proposte di John, sprofondando in una progressiva ed ineluttabile follia.

    Una storia molto efficace e coinvolgente, e richiama lo stile, a mo’ di archetipo, su cui si sarebbero fondati film di successo nel seguito (penso a The Others, ma anche Il sesto senso). Accostamenti del genere mi sembrano francamente più pertinenti di chi abbia voluto vedere nelle “anime” spettrali che tormentano Mary dei morti viventi pre-Romeriani, cosa che a mio avviso è accettabile giusto come suggestione visiva. Carnival of souls è, infatti, estraneo al cinico materialismo del compianto regista, e somiglia più ad un film onirico o “lynchiano”, nel senso di irrazionale e poco consequenziale in alcuni passaggi. Se è vero che l’intreccio sembra quasi scontato se visto oggi, bisogna contestualizzare il clima ed immaginare la portata del film all’epoca in cui uscì: accoglienza abbastanza fredda, a giudicare dagli incassi, salvo poi essere riscoperto alla fine degli anni ’80 come cult indiscusso.

    Su film del genere sono fin troppe le parole spese dalle varie fan theory e dagli accostamenti con film successivi proposti dai vari recensori: tutti cercano di trovare una spiegazione alla storia, ma non esiste una risposta soddisfacente. Non può esistere per definizione, in questo caso, a meno di accettarne la dimensione puramente onirica, ed in tal senso il film potrebbe essere null’altro che un sogno pre-morte, ipotesi che trovo suggestiva quanto più convincente di molte altre che ho letto. Di sicuro Mary vive l’intero intreccio in una dimensione simile ad un limbo, in cui combatte contro una morte improvvisa per cui non sembra essere pronta, raffigurata splendidamente (e con richiami all’espressionismo tedesco) di figure spettrali dal volto dipinto (e di cui la principale venne interpretata da Harvey stesso). Non bisogna dimenticare, peraltro, che si tratta dell’unico lungometraggio di Herk Harvey, professionista del cinema che ha girato, per il resto, film documentaristici e serie TV di tutt’altro genere, e che per questo rientra nei notevoli casi di chi ha saputo fare un solo singolo horror di gran classe. Un regista che ha, quindi, vissuto il genere solo in maniera occasionale, e alla fine ciò ha finito per contribuire alla fama di cult singolare ed irripetibile di “Carnival of souls” stesso. Candace Hilligoss, archetipica scream queen semplicemente perfetta nella propria parte (oltre che unica attrice professionista del film), resta alla storia solo per questo film, senza considerare altre interpretazioni, solo sporadiche. Resta da chiedersi quanto possa essere lecito dare tutto questo credito ad un film che, nelle stesse parole del regista, è considerato solo una piccola parte di un lavoro enorme, in cui riteneva di avere tanto altro da dire (ben 35 anni a fare film di altro genere di cui mai nessuno, finora, ha parlato troppo)

    La fama di cult legata a Carnival of souls è, in fondo, basata su questa essenzialità: non solo un low budget di alto livello (come altri, del resto, ne vennero girati in quegli anni), ma anche un film che resta isolato nella sua produzione (senza contare un remake omonimo ma abbastanza diverso nella sostanza), quasi come Mary che avverte un macabro ed inspiegabile isolamento dal mondo nei momenti più inattesi. Nell’intervista al regista concessa a fine anni 80 viene riferito come “il film che non voleva morire”, e questa forse rimane la sua descrizione breve più adeguata.

    Carnival of souls non è mai stato distribuito in Italia doppiato, ma è disponibile con sottotitoli italiani nell’edizione della Enjoy Movies (non troppo facile da reperire); da non confondersi, peraltro, con l’omonimo remake degli anni ’90 uscito in seguito.

  • Tar: cast, trama, sinossi, spiegazione finale

    Tar: cast, trama, sinossi, spiegazione finale

    Cast

    Cate Blanchett
    Noémie Merlant
    Nina Hoss
    Sophie Kauer
    Julian Glover
    Allan Corduner
    Mark Strong

    Sinossi. Lydia Tár è la prima donna direttore principale della Filarmonica di Berlino. Si affida a Francesca, la sua assistente personale, per gestire la sua agenda. Mentre viene intervistata da Adam Gopnik al New Yorker Festival, Lydia promuove la sua prossima registrazione dal vivo della Quinta Sinfonia di Mahler e il libro Tár on Tár. Incontra Eliot Kaplan, un banchiere di investimenti e direttore d’orchestra amatoriale che ha co-fondato la Fondazione della fisarmonica con Lydia per sostenere le aspiranti direttrici d’orchestra. Discutono di tecnica, sostituiscono Sebastian, l’assistente direttore di Lydia, e riempiono un posto vacante di violoncello a Berlino.

    Produzione. Nell’aprile 2021 è stato annunciato che Blanchett avrebbe recitato e sarebbe stato produttore esecutivo del film, che sarebbe stato scritto e diretto da Todd Field. In una dichiarazione che accompagnava il teaser trailer nell’agosto 2022, Field disse di aver scritto la sceneggiatura per Blanchett e che non avrebbe realizzato il film se lei lo avesse rifiutato. Nel settembre 2021, Nina Hoss e Noémie Merlant si sono unite al cast e Hildur Guðnadóttir è diventata la compositrice del film.

    Le riprese sono iniziate nell’agosto 2021 a Berlino. Tutta la musica parte integrante del film è stata registrata dal vivo sul set, inclusa la esecuzione del pianoforte di Blanchett, il violoncello di Kauer e le esibizioni della Filarmonica di Dresda.

    La verità è che, fin dall’inizio, io so precisamente qual è il tempo, e il momento esatto in cui voi e io arriveremo insieme a destinazione.

    Spiegazione del finale

    A Berlino, Lydia viene rimossa come conduttrice a causa delle polemiche. Furiosa per le accuse e la mancanza di comunicazione di Lydia, Sharon le impedisce di vedere la figlia. Lydia si ritira nel suo vecchio studio e diventa sempre più depressa e squilibrata. Si intrufola nella registrazione dal vivo che avrebbe dovuto condurre e affronta il suo sostituto, Eliot. Consigliata dalla sua agenzia di management a non dare nell’occhio, torna nella sua modesta casa d’infanzia a Staten Island, dove alla parete sono appesi gli attestati di successo con il suo nome di nascita, Linda Tarr. Si commuove guardando una vecchia VHS di Young People’s Concerts in cui Leonard Bernstein parla del significato della musica. Suo fratello Tony arriva e la ammonisce per aver dimenticato le sue radici. Qualche tempo dopo, Lydia trova lavoro come direttrice d’orchestra nelle Filippine. In cerca di un massaggio, il portiere dell’hotel la manda in un bordello che si presenta come un salone di massaggi; le giovani donne siedono in semicerchio con dei numeri sulle loro vesti. Il numero 5 guarda direttamente Lydia, che si precipita fuori a vomitare. Alla fine dirige la colonna sonora della serie di videogiochi Monster Hunter davanti a un pubblico di cosplayer. Si può interpretare il finale in vari modi, in effetti: appena Lydia Tár alza la bacchetta e l’orchestra inizia la sua esibizione, una ripresa laterale del pubblico ci rivela il colpo di scena conclusivo del film, consentendo una rilettura completamente nuova dell’atto finale appena trascorso.

    Le sue speranze e il progetto a cui aveva dedicato cuore e anima le sono state sottratte senza pietà: voleva dirigere la sublime Sinfonia n. 5 di Gustav Mahler, e non potrà più farlo. Il suo ingresso trionfale sul palco, con Lydia avanzante con un’ira ardente verso la telecamera, si svolse in brevi istanti, con la ferocia di una belva scatenata: la donna scaccia via dal podio il suo collega designato per sostituirla, Eliot Kaplan (Mark Strong), per poi scagliarsi su di lui con furia selvaggia. Per un personaggio che all’inizio della narrazione era apparso così tranquillo, disinvolto, assolutamente padrone di sé e del suo mondo, questa è una trasformazione radicale, inconscia, inconcepibile, destabilizzante. In seguito, Lydia è condotta in un centro di benessere per un trattamento massaggiante e si trova di fronte a una situazione chiamata “l’acquario”. Incolpata di essere una predatrice, è circondata da un gruppo di giovani donne dai volti abbassati, tra cui deve scegliere la sua preferita. L’unica a sollevare lo sguardo, sfidandola con uno sguardo deciso, è la numero cinque, come la sinfonia di Mahler che Lydia non ha più potuto dirigere. La scena è ambigua e la fuga affrettata di Lydia, sopraffatta da una sensazione di nausea, riflette lo stato psicologico precario di un personaggio che non è ancora riuscito a liberarsi dei suoi tormenti interiori (e forse dei sensi di colpa). Infine, durante la sua esibizione successiva, l’orchestra filippina di Lydia esegue la colonna sonora del videogioco Monster Hunter per un pubblico di appassionati di cosplay: questo può essere visto come l’estremo oltraggio inflitto a un idolo ormai infranto, una sottolineatura della “caccia al mostro,” o forse l’epilogo nasconde qualcos’altro?

    Da un lato la realizzazione di un sogno in veste diversa da quella che avevamo prefigurato, dall’altro – forse – la distruzione assoluta del sogno.

    Di Maxpoto – https://www.youtube.com/watch?v=F_NxSjuprJs, Copyrighted, https://it.wikipedia.org/w/index.php?curid=9498611

  • Wishmaster – Il signore dei desideri: uno degli ultimi scampoli di autentico horror anni 90

    Wishmaster – Il signore dei desideri: uno degli ultimi scampoli di autentico horror anni 90

    1127: in Persia viene evocato un demone jinn, in grado di esaudire tre desideri a chi lo evoca per poi, finalmente, avere il dominio del mondo. Fermato per tempo da un sacerdote dell’epoca, viene rinchiuso in una gemma rossa. La stessa che, secoli dopo, verrà trovata accidentamente dalla protagonista…

    In breve. Horror di marchio USA sulla base di modelli particolarmente consolidati e di successo qualche anno prima (su tutti, Hellraiser). Ci sarebbero tutti gli ingredienti del film perfetto, soprattutto a livello visuale, se non fosse per un finale vagamente didascalico e qualche crepa nello script.

    Alla regia del primo Wishmasher troviamo Robert Kurtzman, molto a proprio agio con gli effetti speciali – che infatti vengono sfoggiati fin da subito – oltre ad avere una considerevole esperienza con il mood dell’horror. Ha lavorato, ad esempio, a Misery non deve morire, La casa 2 e Nightmare 5. Wishmaster, primo film di una saga di discreto successo prolungatasi fino al 2002, è anche una delle sue rare occasioni di poter lavorare alla regia, con un soggetto di Peter Atkins che si ispira alla demonologia classica, ovvero la figura del jinn. Nella tradizione, infatti, i jinn si fanno risalire all’epoca pre-musulmana, e sono entità malvage simili ai goblin o al “genio” reso popolare da Le mille e una notte, tant’è che nel film si esplicita ironicamente che il tutto non ha nulla a che vedere con Robin Williams (che nel cartone animato Aladdin, targato 1992, aveva dato la propria voce al Genio della lampada). Del resto è assodato che la tradizione favolistica abbia preservato soltanto gli aspetti rassicuranti del “genio”, rendendolo simile all’ironica figura disneyana che abbiamo conosciuto anche in Italia ai tempi, ed occultandone la natura tradizionale che lo rendeva, di fatto, più simile ad un beffardo demone.

    Il jinn di Wishmaster è molto più fedele alla tradizione – per quanto ciò avvenga in una azzardata chiave splatter – e sì, esaudisce ogni desiderio, ma lo fa spesso e volenieri a svantaggio della vittima, spesso raggirandola come avviene con la commessa trasformata in un manichino per assecondare la sua volontà di rimanere giovane & bella a vita. Il demone protagonista di questo horror alquanto scenografico, ricchissimo di splatter e compatto, è un muta-forma che si nutre dei desideri espressi dai malcapitati che incontra, fino ad assumere la parvenza di un uomo d’affari, potente ed affabulatore, che vorrebbe chiudere il cerchio per dominare il mondo. Alla malvagia creatura si opporrà Alexandra, protagonista classica di questo sottogenere dell’orrore, personaggio discretamente caratterizzato quanto vagamente fiacco per certi aspetti.

    I jinn rappresentano una sorta di demone sempre esistito, vagamente lovecraftiano, scaltro e imprevedibile nell’esaudire i desideri altrui e sempre mirato ad accrescere il proprio potere. Desideri che, inciso, ricadono in due casistiche fondamentali: vanità (soldi, bellezza) o addirittura la morte di qualcun altro, un po’ come avveniva anche in Death Note. Desideriamo spesso le peggiori nefandezze contro i nostri nemici, la vita lunga, la ricchetta o la bellezza eterna – salvo poi pentircene, rimanere travolti dal senso di colpa, ingannati e via dicendo. L’analisi psicologica è un po’ didascalica nei toni, ma sostanzialmente regge e non appesantisce la narrazione.

    Il personaggio più emblematico in tal senso è peraltro proprio Alexandra (Tammy Lauren), alle prese con un passato traumatico (ha perso i propri genitori in un incendio, riuscendo a salvare solo la sorella) e per cui il contatto con il jinn, evocato accidentalmente, si prefigura come un autentico incubo ad occhi aperti, a intermittenza.

    C’è anche da dire che, nonostante la scenaggiatura sia quasi perfetta, è presente qualche piccola forzatura, tra cui il fatto che il jinn non sembra poter fare nulla che non sia espressione di volontà altrui, per quanto poi – in alcuni momenti – sembri allegramente contravvenire alla regola, senza troppe spiegazioni. D’altro canto, ed è l’unica critica sostanziale che sento di poter muovere al film, Alexandra è un po’ troppo sul mood “risolutore made-in-USA”, ed affronta il demone in modo un po’ troppo gradasso (leggasi: poco credibile), un po’ come nella gloriosa tradizione dei film d’azione / horror niente male quanto un pochino grezzi nei modi (non è un azzardo pensare a Giorni contati, a mio avviso, per capire a cosa mi riferisco).

    La tagline “attento a ciò che desideri” con cui venne lanciato Wishmaster nel 1997, dal canto suo, è altamente suggestiva e sembra essere perfettamente in linea con questo spirito, che cavalca l’horror psicologico spesso e volentieri ma che, alla prova dei fatti, è un terrore più d’azione che mentale. Molte trovate sono davvero originali, su tutte la scena del party che diventa una mattanza e soprattutto le statue degli dei dimenticati che si animano ed iniziano ad uccidere. È l’horror inventato da Clive Barker, in fondo (Hellraiser), in cui creature infernali si innestano nel mondo moderno senza troppi complimenti, con la semplice e cruda finalità di infliggere sofferenza all’uomo, e qualche scampo di horror surrealista davvero suggestivo (Alexandra intrappolata nella gemma, la sorella dentro un quadro). Una metafora visiva dei mali del mondo che, col tempo, è stata sempre meno utilizzata dai registi, se si pensa che gli horror fantasy sono sempre meno sfruttati e popolari: varrebbe la pena, forse, dare uno sguardo anche a Jeepers Creepers, sempre sulla falsariga di Wishmaster, anche perchè il creeper protagonista è davvero molto simile al genio che  si aggira in questo film.

    È anche il caso di citare la massiccia e insistita presenza di effetti speciali, uno splatter all’ennesima potenza che rende la visione alquanto spettacolare e suggestivo al netto, forse, di una conclusione della storia vagamente semplicistica e forzosamente rassicurante quanto necessaria nella misura in cui il jinn dovrà materializzarsi nuovamente negli altri tre film della serie. Nel finale, peraltro, Alexandra opta per un desiderio che possa annullare la circostanza originaria che ha scatenato il demone, eliminando così la dimensione temporale in cui si era trovata; su questo si sarebbe potuta sviluppare qualche sottotrama interessante (tipo il colpo di genio che aveva fatto concepire, ad esempio, L’armata delle tenebre), ma si opta per la soluzione più semplice – una sola linea temporale, un solo universo pensabile, una unica dimensione. E non finisce qui: nella dimensione “ripulita” da Alexandra il jinn non solo non si manifesta, ma lei decide di concedersi all’amico che aveva in precedenza friendzonato. Happy ending e tutti a casa, insomma, in cui vediamo la vittima di un trauma che decide di lasciare spazio a sentimenti repressi, come se il pericolo scampato fosse liberatorio a prescindere, in qualche modo.

    Siamo lontani dalla tradizione nichilista dei vari Nightmare, forse l’ispirazione più palese per la creazione del demone (Wes Craven peraltro lavorò alla produzione, in questo film), e c’è da riconoscere che se il jinn non è mai diventato iconico come Freddy Krueger, un motivo deve pur esserci. Rimane un’eco potente che si ispira alla serie Ai confini della realtà / The twilight zone, in cui certi episodi assumevano una valenza didattico-didascalica, e c’era una certa compatezza narrativa priva di fronzoli, al netto di personaggi non sempre convincenti al 100%. Wishmaster si avvale della partecipazioni di volti noti dell’horror e della fantascienza, a partire da Robert Englund a finire con Tony Todd, Kane Hodder e George Buck Flower, e anche Tom Savini ha avuto una parte attiva nella creazione degli effetti speciali.

  • Porte aperte: trama, cast, curiosità sul film

    Porte aperte: trama, cast, curiosità sul film

    “Porte Aperte” è un film italiano del 1990 diretto da Gianni Amelio. Il film è noto per il suo impegno sociale e politico ed è stato ispirato da eventi reali. Di seguito, ti fornirò dettagli sulla trama, il cast, la regia, la produzione, lo stile, alcune curiosità e una spiegazione dettagliata del finale con un avviso spoiler.

    Trama: “Porte Aperte” è ambientato in Italia durante la Seconda Guerra Mondiale e segue la storia di un prete cattolico, Don Benedetto (interpretato da Gian Maria Volontè), che lavora per aiutare e proteggere i detenuti politici antifascisti. La storia ruota attorno alle sue interazioni con un giovane detenuto politico di nome Luigi (interpretato da Ennio Fantastichini), che è stato condannato a morte per le sue attività antifasciste.

    Il film esplora il conflitto tra Don Benedetto, che cerca di offrire conforto spirituale e sostegno umano a Luigi e agli altri detenuti, e il regime fascista che cerca di reprimere l’opposizione politica in Italia. La narrazione si sviluppa attraverso una serie di incontri tra Don Benedetto e Luigi, rivelando il crescente legame tra i due uomini e la lotta per la sopravvivenza e la giustizia.

    Cast:

    • Gian Maria Volontè come Don Benedetto
    • Ennio Fantastichini come Luigi
    • Renato Carpentieri
    • Tuccio Musumeci
    • Renato Scarpa

    Regia: Il film è stato diretto da Gianni Amelio, un regista italiano noto per il suo stile realistico e la sua attenzione per i temi sociali e politici. La sua regia in “Porte Aperte” è stata apprezzata per la sua capacità di catturare l’angoscia e la tensione dei personaggi e dell’epoca storica in cui è ambientato il film.

    Produzione: Il film è stato prodotto da Giuseppe Tornatore e Angelo Rizzoli Jr. ed è stato distribuito nel 1990.

    Stile: Il film presenta uno stile realista, con una fotografia che cattura l’atmosfera cupa e opprimente del periodo storico. La narrazione si concentra sulla profondità dei personaggi e sulle loro relazioni, piuttosto che su effetti speciali o azione spettacolare.

    Sinossi: “Porte Aperte” racconta la storia di un prete che cerca di sostenere detenuti politici antifascisti durante la Seconda Guerra Mondiale in Italia, mettendo in evidenza i conflitti morali e politici dell’epoca.

    Curiosità:

    • Il film è stato nominato per l’Academy Award come Miglior Film Straniero nel 1991.
    • È basato su eventi e personaggi reali, il che aggiunge una dimensione storica significativa alla storia.

    Spiegazione dettagliata del finale (SPOILER ALERT): Nel finale del film, Luigi è stato condannato a morte, ma Don Benedetto continua a sostenere spiritualmente e moralmente il giovane prigioniero fino all’ultimo momento. Mentre Luigi viene condotto al plotone di esecuzione, Don Benedetto è presente e lo guarda morire. Questa sequenza finale è profondamente toccante e rappresenta il culmine della relazione tra i due personaggi.

    La morte di Luigi sottolinea la brutalità del regime fascista e il sacrificio di coloro che si sono opposti ad esso. Don Benedetto, pur avendo fatto tutto ciò che poteva per aiutare Luigi, è costretto a confrontarsi con l’ingiustizia e la durezza della realtà politica dell’epoca.

    Il finale offre una potente riflessione sulla lotta per la giustizia, la fede e la resistenza contro le forze oppressive. È un momento di grande impatto emotivo che rimane con lo spettatore anche dopo la fine del film, rappresentando il tema centrale della storia e la sua forza emotiva.

  • No, non volete davvero guardare “A Serbian Film”

    No, non volete davvero guardare “A Serbian Film”

    A Serbian film (un film serbo) è un titolo solo apparentemente innocuo per uno degli horror più espliciti, crudeli e privi di fronzoli che siano stati mai girati fino ad oggi. Oggetto di numerose controversie per via di un certo tipo di rappresentazione della violenza, in cui non si risparmiano dettagli macabri ed in cui vengono violati diversi tabù, impossibili da raccontare nella loro puntualità senza cogliere il contesto generale.

    La poetica del film di per sé sarebbe anche chiara, dato che vuole ergersi a metafora o allegoria del mondo in cui viviamo, in cui il capitalismo si erge a titolo di imbattibile mostro finale delle nostre esistenze, con l’aggravante di provare a sedurci con le sue allusioni erotico-monetarie: se hai i soldi hai tutto, paghi le bollette, mangi da dio, vivi in una villa tutta tua e il sesso è garantito, automatico, l’hai appena comprato, e non serve lo scontrino, figuriamoci. Il problema è la forma, se vogliamo chiamarlo problema, ammesso che una qualsiasi espressione artistica possa essere un priblema e, per quello che vale, dando per buono che non sia così. Il problema – nel senso a cui ci riferiamo – è il modo in cui le scene vengono proposte, nell’ottica craveniana di suscitare disgusto, repellenza, orrore puro perchè figlio di una violenza esplicita, mai accennata, fin troppo dettagliata.

    Opera sadiana ma non sadica secondo Nocturno, che lo contestualizza nell’ambito dei disturbi post traumatici delle feroci guerre in ex Jugoslavia (come fa anche Davinotti, del resto) che tormentarono gli anni Novanta, di cui questo horror potrebbe ritenersi figlio e simbolo, un po’ come accadde per Combat Shock rispetto al conflitto in Vietnam. La chiave di lettura post bellica è a mio parere estremamente interessante, perché non a tutti sarebbe venuto in mente di collegare l’idea di rappresentare gli orrori del periodo dicendoci che si tratta di un film (che parla) di una specifica nazione, in un periodo storico di cui tanti hanno forse dimenticato, senza aggiungere altro, lasciandoci la morbosa curiosità di guardare, di dare una sbirciatina, al limite tappandosi gli occhi e le orecchie in alcune sequenze.

    Ma A Serbian film è anche da considerarsi una discesa negli abissi più profondi della perversione come scritto da Silenzio in Sala, il quale ne sottolinea la primalità come opera puramente horror, da annoverarsi tra gli horror politici e sociologici che una volta erano patrimonio tipicamente USA, da Wes Craven fino a Tobe Hooper. La purezza di quest’opera rispetto al genere è ovviamente proporzionale all’insopportabilità di determinate sequenze, che sono diventate vere e propri oggetto di culto e di rehash implicito da parte degli appassionati del film, producendo lo stesso effetto che si è verificato per Operazione Luna, a ben vedere: un rimontaggio delle sole scene più forti, riproposto sul web in mille salse, che ha costituito una vera e propria sottocultura complottista, quella dei voyeur dagli istinti sadici (o sadiani) che rifuggono il contesto, la cornice, per mostrare l’orrore in quanto tale. E non è detto che ciò possa cogliere l’essenza del film, a ben vedere.

    Il risultato è che sono quasi sicuramente di più le persone che hanno visto solo le scene estreme e non il film per intero, e questo è un effetto collaterale di moltissimi di questi prodotti che tendono a fare dello sperimentalismo la propria bandiera (mi vengono in mente in ordine sparso Flesh of the voidSnuff 102 che, sulla stessa falsariga o quasi, potrebbero aver subito la stessa sorte, decontestualizzati in nome del dio post moderno o strutturalista). Srđan Spasojević (regia) e Aleksandar Radivojević (sceneggiatura) erano quasi certamente sicuramente consapevoli di quello che stavano per produrre, E di quanto strascico e discussione avrebbe prodotto un lavoro del genere.

    È anche probabile – a posteriori – che non ci sia più spazio per opere di questo tipo nei tempi in cui viviamo, più corrotti di quanto qualsiasi regista horror avrebbe potuto immaginare. Ma opere del genere rimangono simboliche di un modo di percepire un trauma collettivo, un modo per esplicitare il non detto e per recuperare nel rimosso delle nostre coscienze gli errori della violenza e di ogni tipo di guerra, sia pure con il rischio (non da poco) che quella violenza così esplicita, diretta, traumatizzante, che coinvolge esseri umani di ogni età, ordine e grado, possa essere fraintesa o capovolta nel suo reale significato.

    Negli anni Settanta avremmo parlato di shockploitation: rivedendo questo film oggi siamo molto consapevoli che le etichette non servono a nulla, per quanto in quel periodo degli anni anni Duemila andasse di moda parlare di torture porn. Un’etichetta poco adeguata che, oltre a essere fuorviante, in questo caso rischia di innescare le reazioni più scomposte: perché se lo scopo è compiacersi di quello che si guarda allora vale la pena guardare altro. Se invece l’idea è quella di esplorare nell’animo scuro dell’uomo può essere il film giusto, ma non si può – nè si deve – approcciare a un prodotto del genere con la leggerezza e l’ingenuità di chi si aspetta un’opera horror estrema: in questo caso siamo ben oltre quella soglia. Ben oltre la soglia fissata dalle 120 giornate di Sodoma di Pasolini, a cui l’opera dovrebbe peraltro ispirarsi almeno in parte.

    (aggiornamento di marzo 2024)

    Trama

    In breve: horror estremo particolarmente abile a costruire un sottotesto attrattivo (quello del mondo del porno) per poi renderlo orrorifico, disagiante e profondamente sgradevole. Film violentissimo in ogni senso, direi fino al paradosso (raramente qualcuno si è spinto a questi livelli), con un significato politico ben definito: A serbian film è quasi un manifesto anarchico, ma presenta almeno un paio di scene in cui sarà impossibile non coprirsi gli occhi con le mani. Se si regge, e si sa “leggere”, potrebbe valerne la pena.

    Nella Serbia dei giorni nostri, Milosh è un ex- attore pornografico disoccupato e con famiglia da mantenere, il quale un bel giorno – per necessità – accetta di girare un film su proposta di un ambiguo produttore (Vukmir). Le condizioni sono atipiche: dovrà recitare senza sapere i dettagli della sceneggiatura – forse un ennesimo “grande fratello” – ed in ballo vi è un compenso esageratamente alto.

    Sinossi

    La trama di “A Serbian Film” ruota attorno a un ex attore porno, Milos, che viene coinvolto in un nuovo progetto cinematografico promettente. Tuttavia, man mano che il progetto avanza, Milos si rende conto che le richieste del regista sono sempre più estreme e perverse, portandolo in situazioni di violenza sessuale e violenza inimmaginabili.

    Un film controverso

    A Serbian Film rientra nel cinema “estremo” più discusso nei forum che visto al cinema, alla prova dei fatti; e questo non è nemmeno un caso isolato, perchè quando si spinge il pedale su determinati argomenti sensibili è inevitabile, oltre una certa soglia, che possa scattare l’effetto “Salò” di Pasolini – altro film visivamente tremendo ma, alla prova dei fatti, più discusso che visto. Le critiche spietate a questo film – come prodotto ultra-violento e iper-esplicito, ad un certo punto – sono lecite quanto probabilmente figlie di una tendenza piuttosto “mainstream“: la repulsione del pubblico verso le tematiche sessuali violente (non tanto per quelle “solo” violente, che Tarantino e compagnia hanno già demistificato da anni, con la storia della graphic violence e annesse supercazzole).

    È chiaro che se i termini della discussione sono questi, e se davvero chiunque può giocare sull’effetto virale semplicemente facendo un qualsiasi torture porn, lo scenario diventa desolante. Diventa impossibile parlare di horror perchè tutto quello che scriveremo, in qualche modo, finirebbe per essere sbagliato a prescindere. Peraltro, Spasojevic in questa sede offre non pochi spunti suggestivi, addirittura inserisce una metafora politica e sociale nel film, del tutto priva di mezzi termini (sesso anale per indicare metaforicamente il rapporto tra un politico ed il suo elettore, oppure tra te ed il tuo capo, oppure ancora – per estensione – tra un cineasta e la censura). Il tutto, ovviamente, ricorrendo all’arma del trauma visivo, e spesso abusandone allegramente, a dirla tutta (certi dettagli di A serbian film sono inutilmente insistiti, quasi da sembrare insulsi).

    “Tu devi solo comparire, essere quello che sei, rilassarti ed agire come Milos agirebbe…”

    Sapore di snuff

    Il sospetto che “A serbian film” abbia qualcosa di atipico e di morboso assale lo spettatore fin dai primi istanti del film, del resto, alimentando la netta impressione che Milos stia per girare una sorta di snuff. La sostanza appare progressivamente più chiara durante lo scorrere del film, e attenzione: non si tratta di un prodotto auto-referenziale per morbosi affamati di violenza gratuita, dove la trama è poco più di un pretesto (vedi ad esempio Snuff 102 o Grotesque). È invece magistrale, e alla base dell’intero lavoro, la resa del contrasto lacerante tra la tranquillità familiare del protagonista (che conduce una vita non eccezionale, che ama poco e che rimpiangerà nel seguito) e la spirale di sangue e sesso estremo a cui molti spettatori increduli faticheranno a trovare un vero motivo. L’unico motivo è che Milos farebbe qualsiasi cosa, letteralmente, pur di guadagnare soldi per mantenere la propria famiglia e non farla soffrire, anche a costo di essere, a sua volta, abusato mentalmente o fisicamente.

    All’inizio delle riprese – che avvengono in quello che sembra essere un orfanotrofio, un luogo morbosamente atipico per girare un porno – Milos trova vari cameraman vestiti come addetti alla sicurezza che ne registrano minuziosamente i movimenti: una sorta di “grande Fratello”, sparso nei vari ambienti, dove Vukmir (il feroce committente) recita la parte del voyeur. Disgustato e imbarazzato dalle circostanze surreali in cui si trova, Milos decide inizialmente di mollare il set: e per questo la pagherà cara.

    Amo giocare con le metafore. Quando metti una metafora nuda sul tavolo, è come se facessi un disegno. Ad esempio quando diciamo “il tuo capo ti sta fottendo” potremmo disegnarlo mentre lo fa – ma sappiamo che non lo sta facendo sul serio. Stiamo quindi dipingendo come ti senti, ed è quello che abbiamo fatto nel film. E’ come se ci sentissimo violati dall’autorità, dalle nostre autorità che nel campo politico ed artistico sono così restrettive e mentalmente ristrette da rendere impossibile qualsiasi cosa. Quando vai a svolgere il tuo lavoro regolare, è come se ti stessi prostituendo no-stop. Ecco il perchè della natura pornografica del film: rappresenta qualsiasi lavoro indecente tu abbia mai fatto. E’ un tipo di pornografia perchè ti fai fottere per dare da mangiare alla tua famiglia. Stiamo rendendo metafore nella carne, come il grande David Cronenberg, una delle nostre grandi ispirazioni per il film (assieme agli horror anni 70 americani, come detto altro nell’intervista, ndr) (A. Spasojevic, intervista a Bloody Disgusting)

    Diversi sono i paralleli narrativi visibili nel film, tra cui il perenne contrasto tra l’umanità del protagonista e l’insostituibilità degli affetti familiari, in lotta feroce con l’istinto di protezione che diventa, a quel punto, quasi animalesco, capace di proteggere, rassicurare o terrorizzare. Homo homini lupus, insomma. In “A Serbian Film” si mostrano incesto, stupro, un sesso sfrenato consumato fino alla materiale incoscienza e soprattutto l’idea della Morte, a seguito della quale non esiste alcun sentimento di pietà, ma solo ulteriore strumentalizzazione e spettacolarizzazione. Memorabile, poi, la mutazione di Milos: tra ricordi confusi e inganni subdoli, la pornostar dal buon cuore arriva paradossalmente ad avere ribrezzo della sua stessa vita sessuale, tanto è riuscito un sadico burattinaio a manipolarne la personalità.  Una Morte che trionfa anche nel terribile finale: un finale che distrugge l’illusione di qualche attimo di “aver salvato il salvabile“, lasciando solo desolazione e un profondo nichilismo. L’amore, l’unità della famiglia, la coerenza dell’uomo – vengono disgregati d’un sol colpo da questa rappresentazione di un Potere sostanzialmente pasoliniano.

    L’estremo come poetica sovversiva

    Mentre tantissimi critici (spesso in buonafede o distratti da una forma che rischia di affossare la sostanza) si affannano a sconsigliare al pubblico la violenza della pellicola, non dimentichiamo che è in realtà una brutale metafora contro il Potere, che costringe, secondo le parole del regista, le persone a eseguire azioni contro la propria volontà, pur di poter sopravvivere. E se cerchi di opporti, o di trovare strade alternative, vieni prima boicottato, poi distrutto negli affetti e – a quel punto – desideri soltanto auto-eliminarti. Roba che si è vista raramente a questi livelli di esasperazione, come nemmeno accade nel pur crudo “Il centipede umano“.

    Le vittime sono la cosa più venduta di questo mondo…

    In definitivaSrpski film” infrange, con uno stile ibrido tra shockumentary e cinema-verità, i vari tabù sulla perversione, rendendoli orrorifici e ancora più aberranti di quanto non sia il solo nominarlicome in un nuovo Grande Fratello versione hardcore, con comuni cittadini ridotti a sudditi sessualmente passivi, semplici marionette senza più nulla al proprio interno. Una metafora a mio parere talmente interessante, al di là del linguaggio che non piacerà a tutti, che sembra strano che qualcuno non ci abbia pensato prima.

    Un film sostanzialmente valido per gli amanti dell’horror estremo, crudele e pesantissimo, ancor più per la metafora politica anti-governativa (da approfondire e contestualizzare, certamente), e con interpretazioni tutte sopra le righe.

    “A Serbian Film” è un controverso film horror serbo del 2010, diretto da Srdjan Spasojevic. Il film ha suscitato molte critiche e dibattiti per la sua rappresentazione esplicita di violenza sessuale e altre situazioni disturbanti. La trama segue un ex attore porno che accetta di partecipare a un nuovo progetto, solo per scoprire che le azioni richieste diventano sempre più brutali e insopportabili.

    Cast e Produzione

    Il cast del film include Srdjan Todorovic nel ruolo principale, insieme ad altri attori serbi.

    La produzione è stata guidata dal regista Srdjan Spasojevic.

    Curiosità

    Il film è stato ampiamente discusso e criticato per la sua rappresentazione esplicita e spaventosa di temi controversi, portando a discussioni sulla censura e la limitazione della libertà artistica.

    La questione della libertà artistica e dei contenuti controversi nei film è un argomento complesso e dibattuto, e probabilmente A serbian film è uno dei prodotti che più ha scatenato la discussione in questa veste. Rispondere a un’affermazione sulla necessità di vietare legalmente film come “A Serbian Film” richiede una considerazione equilibrata dei diritti individuali, della libertà espressiva e delle possibili implicazioni, anche se – per natura stessa del film – non è per nulla agevole farlo. Sappiamo che la libertà di espressione è generalmente garantita a chiunque, anche se i contenuti non fossero per tutti: del resto film terribili da visionare come Salò di Pasolini contengono scene eccessive che si collocano in una dimensione politica (criticare gli eccessi del potere), che è un po’ lo stesso che fa il regista qui.

    Ogni critica a A serbian film rischia di essere una polemica di natura politica e che accarezza pericolosamente l’idea di censura come desiderabile, cosa che dovrebbe farci inorridire più delle tremende scene contenute nel film stesso, ormai ben note.  Argumentare che anche se certi film possono contenere contenuti disturbanti o controversi, vietarli potrebbe aprire la strada a restrizioni simili su altri tipi di espressione artistica, limitando la diversità delle opinioni e delle visioni creative.

    Una legge che vieti determinati tipi di film potrebbe portare a un controllo eccessivo sulle opere artistiche, limitando la capacità degli artisti di esplorare temi oscuri o provocatori. Del resto anche i film controversi possono avere un valore educativo e critico. Possono servire come commenti sociali, spingendo il pubblico a riflettere su questioni importanti e a discutere nostro malgrado temi difficili. Invece di vietare un film per legge, potrebbe essere più appropriato stabilire restrizioni d’età chiare e accurate, consentendo al pubblico adulto di prendere decisioni informate sulla visione dei contenuti. Ciò rispetterebbe i diritti dei genitori di decidere cosa è appropriato per i loro figli e allo stesso tempo consentirebbe agli adulti di prendere decisioni autonome.

    Non dovremmo poi nemmeno ricordare, ma è bene farlo lo stesso, che il cinema è un’arte che può affrontare una vasta gamma di emozioni, esperienze e temi. Alcuni film possono essere considerati opere d’arte e possono essere oggetto di analisi critica e dibattito. A serbian film secondo noi non lo è, a dirla tutta, ma ha pieno diritto di esistere.

    Spiegazione Finale (senza spoiler)

    Come accennato in precedenza, a causa della natura estremamente disturbante del finale di “A Serbian Film”, eviterò di entrare nei dettagli. Tuttavia, posso dirti che il finale del film è noto per essere particolarmente sconvolgente e oscuro, coinvolgendo ulteriormente il protagonista in eventi traumatici e violenti che hanno alimentato molte delle polemiche e delle critiche rivolte al film. Ricorda che “A Serbian Film” è stato oggetto di numerose controversie a causa delle sue rappresentazioni violente e disturbanti. Sebbene possa suscitare curiosità, è importante considerare attentamente se desideri esplorare un film con contenuti così forti e potenzialmente traumatizzanti.

    A serbian film, dove vederlo?

    Il film è disponibile in streaming su Google Play