Hagazussa: la risposta europea a Robert Eggers
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The Witch, due anni dopo. Non possiamo dire che gli anni Dieci del XXI secolo non abbiano attinto alla tradizione della stregoneria: da Le streghe di Salem di Rob Zombie a The Love Witch di Anna Biller – e non dimenticandoci di menzionare American Horror Story: Coven di Ryan Murphy – la meravigliosa, affascinante e antichissima tradizione delle fattucchiere ha popolato cinema e televisione, riscoprendo i propri archetipi e riscoprendosi nella chiave femminista che, a conti fatti, ha sempre avuto e che troppo a lungo è rimasta celata. Con la figura della strega si riscopre infatti una femminilità forte, indipendente e autonoma a lungo tempo negata alle donne, che vi hanno rinunciato tenendola tuttavia sopita, senza allontanarla da se stesse del tutto ma alimentandola giorno per giorno, e maturandola in una rabbia sempre più crescente, come accade in Hagazussa – La strega, opera prima del 2017 di Lukas Felgeifeid.

Il termine stesso “hagazussa” attinge alla lingua arcaica dell’Austria, dove il film è ambientato, per indicare il concetto di strega.

Siamo in un villaggio delle Alpi, in un’epoca antica seppur non meglio precisata, dove l’agricoltura e l’allevamento, e quindi il contatto più profondo con la natura, la fanno da padrone nella vita degli esseri umani. Tra questi spiccano Martha e Alburn, rispettivamente madre e figlia, che vivono sole al limitare dei boschi, cosa che le rende vittime delle maldicenze, dei pregiudizi e dell’odio degli altri abitanti, che le additano con disprezzo come streghe e in un’occasione minacciano di bruciare loro e la casa in cui vivono. Lo stigma attorno questa figura di donne era proprio il tema centrale che il regista intendeva indagare in Hagazussa: ispiratosi alle antiche leggende folkloristiche che vedevano le streghe come abitanti dei boschi, ha immaginato la reazione psicologica che avrebbe potuto avere una donna dell’epoca vittima di questi pregiudizi.

Proprio attorno a questo tema si snoda dunque la storia di Alburn, raccontata attraverso quattro capitoli all’interno dei quali avvengono episodi significativi per la vita della protagonista.

Senza mai abbandonare la dimensione arcaica e folkloristica della natura che invade le Alpi austriache, Felgeifeid immortala una bambina che assiste fin dalla più tenera età allo stigma e al trauma, abituandosi a viverci e quasi a sentirsi a suo agio all’interno di esso. Alburn infatti cresce ai margini della società, circondata dalle capre che già sua madre prima di lei allevava, tuttavia la sua dimensione di estrema solitudine non le provoca disagio; al contrario, è il contatto con le altre persone che la fa sentire maledettamente fuori posto. In particolare sono gli uomini, di qualsiasi età, a provocare in lei il disagio più grande. Proprio al genere maschile infatti Alburn imparerà fin da piccola ad associare diverse caratteristiche negative: la pazzia, l’odio, lo scherno, fino ad arrivare alla violenza brutale. Di conseguenza, al genere femminile vengono associate caratteristiche positive: l’amore tra madre e figlia, l’attrazione sessuale, la natura, il nutrimento e la vita.

Non serve dunque andare troppo a fondo la questione per capire come Hagazussa, in quanto film che racconta una storia di streghe, sia costruito su una solida base di dualismo che tende a mettere bene in luce le differenze tra uomo e donna. La dimensione femminile è vista come quella originaria, alla base di ogni tipo di rapporto duraturo, in quanto a sua volta nasce direttamente dalla Natura intesa come forza generatrice, Grande Madre Terra che le streghe a loro volta venerano. Hagazussa è un film di silenzi e panorami, introspettivo e intimo, in cui la piccola dimensione umana viene messa a confronto con l’immensità della natura; tuttavia si vede una donna muoversi a proprio agio all’interno di questa vastità del mondo, con la dimensione rurale primordiale, come se effettivamente fosse conscia non solo di appartenerle ma di venire proprio da quel terreno a cui, nonostante sia libera di muoversi sulla superficie, resta fedelmente ancorata con radici ben salde.

Se The Witch era maggiormente concentrato sui rapporti umani e sulle dinamiche interpersonali che portano all’esclusione e all’isolamento del diverso, Hagazussa si pone su una dimensione più elevata e trascendente, lasciando una donna già vittima di pregiudizi sola con se stessa, posta di fronte all’immensità del mondo come nella tradizione romantica artistico-letteraria. Felgeifeid dà infatti per scontata l’esistenza del pregiudizio e dell’odio: li rende delle presenze che pasteggiano sul mondo da tempi immemori, con cui le vittime delle stesse sono ormai abituate a convivere; tanto antiche quanto lo sono le leggende sulle streghe e le persecuzioni che le stesse hanno dovuto subire. Conscio di ciò, il regista punta la macchina da presa sulla vita di chi da tempo subisce, ritagliando spazio, tempo e attenzione attorno a questa figura misteriosa e intrigante, a tu per tu con la natura e forse più agio con il mondo rispetto ai “normali”. La sua strega non è esente dai turbamenti dell’animo e della mente, non è la classica figura oscura potente e imperturbabile; anzi, le restituisce l’umanità e la sensibilità che il pregiudizio hanno voluto negarle. Proprio per questo, dunque, assistere al lento declino di Alburn sconvolge e intristisce gli spettatori, perché si fa sempre più largo l’inerme consapevolezza di osservare il tormento di un essere umano spinto fino al limite, e un poco oltre, del sopportabile.

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