In seguito all’omicidio di un ragazzo omosessuale, Pennywise fa la sua ricomparsa nella cittadina; e saranno i suoi antagonisti diventati adulti a doverlo combattere.
In breve. La prosecuzione della storia di Pennywise e dei ragazzini che lo combattono – 27 anni dopo, con i protagonisti adulti e alle prese con relativi problemi da adulti.
A differenza del primo capitolo, la sceneggiatura viene qui affidata a Gary Dauberman (sceneggiatore di Annabelle), il quale relega il consueto ruolo di ombra minacciosa al pagliaccio Pennywise, affidandogli appena 7 minuti di dialoghi (contro i 4 del primo capitolo). Il ribaltamento temporale di fronte è insito nella stessa trama, che vede i protagonisti affrontare le consuete paure, queste volta da adulti; il problema, a questo punto, è capire se il tutto si regga in piedi, dato che Pennywise rappresenta le paure infantili che, questa volta, sono trasfigurate su personaggi tipicamente vittime, prima di tutto, di se stessi. Il “patto con il regista” è chiaro, e se guardiamo alla resa e alla evidente devozione di Muschietti per l’opera originale, non ci sono dubbi che l’opera possa considerarsi riuscita più o meno nella misura in cui ciò avveniva con la prima parte, che pero’ conservava un’aura più “incantata” e probabilmente adeguata ai toni kinghiani. Se non altro, in questa seconda parte i balzi temporali che erano tipici della narrazione del romanzo vengono effettivamente mostrati, sballottando leggermente lo spettatore ma, alla fine dei conti, presentandogli un risultato più che dignitoso.
Pennywise, paradossalmente, non sembra prefigurarsi come causa del male, bensì come conseguenza quasi incidentale dello stesso: è una presenza che, in effetti, aleggia nella trama, e si vede poco esplicitamente. Lo vediamo chiaramente nella prima sequenza, quella in cui Adrian viene massacrato per la sua omosessualità e poi buttato giù da un ponte. Sembrano i presupposti di un horror di denuncia sociale, a momenti, ma non è così: il clown malefico compare dal nulla, pesca Adrian dal fiume e lo finisce con un morso. Messa così, la sua presenza punta puramente sul jump scare osull’effetto a sorpresa – ma è, per come viene messa, non troppo relazionata con quello che abbiamo appena visto. È anche difficile parlare di una trama (secondo alcuni) leggermente scollata o raffazzonata, perchè il romanzo del 1986 era talmente zeppo di dettagli che qualsiasi regista sarebbe impazzito nel cercare di ricomporlo fedelmente. E vista in modo obiettivo, al netto di qualche effetto speciale che magari finisce per far alzare qualche sopracciglio, il film è un horror fantasy mediamente godibile.
Nella visione di King si evidenziava come l’intera città, in definitiva, fosse preda del male indotto da Pennywise, in assoluto, e questo rimane come spunto da parte della prima vittima (il riferimento alle “menti ristrette”), che sembra vittima di un’aggressione e solo incidentalmente di Pennywise (quando sarebbe stato forse più coerente identificare il clown negli aggressori, dato che si tratta pure di un mutaforma). La costante è quella di sempre: il male si abbatte sui singoli o sulle minoranze attraverso la violenza, o peggio ancora i tormenti interiori e le paure dei protagonisti. Ma la questione specifica non viene approfondita, e questo – alla fine dei conti – lascia un senso di sospensione nel pubblico, che è portato a dimenticarsene. Non viene mostrato quello che viene esplicitato nel romanzo, ovvero che gli assassini vengono in seguito catturati, e questa è una semplificazione brutale e, secondo me, non troppo azzeccata. Se non altro il cerchio della micro-storia del marito violento e possessivo di Beverly si chiude, così come la figura di Henry Bowers diventerà da bullo violento ad assassino evaso dal manicomio, a testimoniare uno spirito del film più pop semplicistico che da horror psicologico.
I protagonisti in questo nuovo film sono diventati adulti, e la loro caratterizzazione è realistica ed accattivante, tra carriere più o meno realizzate, nevrosi sul posto di lavoro, coniugi possessivi e via dicendo. Il palloncino rosso di Pennywise è ancora una volta onnipresente nella storia, a simboleggiare il male – e morta lì, come dicevo poco fa. I fan del romanzo possono comunque mettersi l’anima in pace, perchè neanche in questo caso – così come nella celebre mini-serie originale – è presente alcun riferimento al Rito di Chud (una sorta di “battaglia tra volontà” per combattere Pennywise, che aveva notoriamente impreziosito il finale del romanzo e che si riconduce, se vogliamo, ad un immaginario fantasy-horror ma anche, per certi versi, al mondo della psicologia). In questa sede Beverly vede effettivamente i Pozzi Neri, che venivano resi genericamente in italiano, nella serie anni 90, come “luce dei defunti”, e questo in parte consola.
Probabilmente non ha troppo senso indagare ulteriormente sul rapporto tra scritto e filmato, perchè è risaputo come certi dettagli della letteratura horror siano difficili (o addirittura impossibili) da rendere sullo schermo (e King è uno degli esempi più emblematici anche storicamente parlando, per quanto nel 2017 siano esistite considerevoli eccezioni alla regola come, ad esempio, Il gioco di Gerald). È molto più importante constatare che il problema della prolissità sia rimasto, e che finisca per rendere IT senza dubbio una storia funzionale (per quanto troppo zeppa di dettagli, personaggi, trame e sotto-trame), ma – ribadisco un’idea impopolare che spero non provochi troppi scompensi – non certo la migliore mai scritta da King.